amore

Amore e il mistero dell'altro

.Dedicato al giorno di San Valentino e a tutti gli innamorati.

Si dice che la scintilla dell’amore scatti in modo imprevedibile.
Ciò che ci attira nell’altro rompe gli argini della nostra quiete razionale, e diventa ossessione quotidiana, finché il mistero che ci attrae non si svela a noi.

Ciò che ci fa innamorare è il mistero dell’altro, la parte che l’altro, senza rendersene conto, tiene chiusa al mondo. L’innamoramento è possibile grazie a un intuito profondo: vediamo nell’altro ciò che ha nascosto, il suo mistero appunto. E la forza amorosa ci porta a svelare questo mistero, con una forza terapeutica naturale (che è l’innamoramento), per rivelare all’altro la bellezza che ha celato.

Allo stesso modo, sentirsi toccati dallo sguardo dell’innamorato ha l’effetto di una carica vitale: ci si sente rinati a nuova vita, ricaricati di un’energia buona e primaria che fa riappropriare di tutta la vitalità di cui si è capaci. L’innamoramento è un grande momento terapeutico della vita, in cui è possibile riprendersi le parti di sé che sono state sacrificate per risolvere situazioni difficili.

Erving Polster, un professore psicoterapeuta della Gestalt, dice che la nevrosi consiste nell’offuscare la propria bellezza, il proprio essere interessante. Nel corso della vita, a volte si fanno delle scelte di annullamento di se stessi, per adattarsi alle situazioni difficili. Un bambino smette di giocare con il fratellino perché la mamma è sempre nervosa e ha bisogno delle sue attenzioni. Quel bambino diventa un baby sitter della madre, e deve nascondere l’interesse per il gioco. La nevrosi è una rinuncia all’interesse spontaneo per la vita. Si diventa così, a vari livelli, noiosi e annoiati. Si perde il gusto per la vita, la capacità di essere interessati/interessanti. Qualsiasi forma di cura deve ridare l’interesse per la vita propria e altrui. L’innamoramento è una cura istantanea, potente, e proprio per questo a volte rischiosa. Oggi, in particolare, è difficile da sperimentare, per la desensibilizzazione diffusa di cui soffrono le nuove generazioni (non ci si sente, nel corpo, nell’anima, nelle emozioni..).

L’esperienza amorosa, spesso vicina all’esperienza mistica, è esperienza del mistero dell’altro. Amare l’altro vuol dire amare l’armonia che egli ha reso invisibile, sapere intuire il dolore e la bellezza più profonda che hanno forgiato l’anima errante dell’altro, le domande che dirigono la sua vita, e fornire una casa per questo errare, un luogo che contiene.

Per questo l’esperienza del mistero è esperienza d’amore, sia verso gli uomini che verso Dio.

Tratto da Essere nel tempo, Rubrica quindicinale a cura di
Margherita Spagnuolo Lobb
Direttore Istituto di Gestalt HCC Italy – Scuola di Specializzazione in Psicoterapia
www.gestalt.it

omosessualità

Omosessualità e riflessioni gestaltiche

– Carmen Vázquez Bandín

In questo articolo l’autrice fa un breve excursus nel mondo dell’omosessualità, proponendo alcune ipotesi a partire dalla teoria del sé della psicoterapia della Gestalt. In primo luogo offre una descrizione dei concetti di inclinazione, identità e comportamento sessuale. Successivamente riassume il pensiero di Freud sull’argomento e analizza l’omosessualità come parte nella costruzione e funzionamento della personalità del sé. Conclude con una breve considerazione sull’interazione tra la società attuale e l’omosessualità.

Se non mi avessero chiesto di scrivere su questo argomento non avrei mai pensato di fare una lettura dell’omosessualità inserita all’interno del quadro di riferimento teorico-clinico della psicoterapia della Gestalt. In primo luogo, perché l’omosessualità copre un ampio spettro di sfumature e possibilità; in secondo luogo, perché è come cercare di descrivere perché ci sono uomini che si innamorano di donne bionde, o perché ci sono donne che sono attratte da uomini alti. Un mondo di scelte individuali e personali che non può sempre essere spiegato dalla teoria della Gestalt!

Ma accettata la sfida focalizzerò i miei pensieri sull’omosessualità come un’identità specifica che comprende il modo di essere e di relazionarsi.
La teoria della psicoterapia della Gestalt non cerca e non crea risposte definitive ma stimola la ricerca di spazi di riflessione sugli argomenti. È così anche per l’omosessualità.
Lo studio della sessualità, per lo psicoterapeuta della Gestalt, ha senso solo quando è relativo alla comprensione dell’individuo nel suo insieme, all’interno di una visione olistica ed integrata dell’esperienza.

Negli esseri animali, non esiste funzione alcuna che si svolga indipendentemente dall’oggetto o dall’ambiente, sia che si tratti di funzioni a carattere vegetativo, come la nutrizione e la sessualità, o di natura percettiva, o di origine motoria, o ancora dell’atto di sentire o di ragionare (Perls, Hefferline, Goodman, 1997, p. 38).

Ciò significa che la sessualità non è qualcosa di istintivo, considerando la definizione di istinto offerta dalla biologia, come qualcosa di ereditato, rigido e fissato all’interno di una specie. L’identità sessuale è una delle identità che sviluppiamo nel corso della vita, come l’identità professionale, di figlio, di padre, di madre, ecc. E, ancora, la sessualità è qualcosa di inerente al piacere. A mio parere, l’omosessualità, dovrebbe essere, quindi, intesa come un possibile modo di rapportarsi a se stesso, agli altri e alla vita. In un certo senso si può dire che è un modo in cui un individuo può esprimersi, interagire e proporsi come persona.

I concetti di inclinazione, identità e comportamento sessuale

Prima di entrare nel dettaglio dell’argomento, ritengo funzionale porre l’accento sulle differenze di significato di alcuni termini. L’orientamento sessuale è definito «come l’inclinazione o la preferenza per il sesso opposto (eterosessualità), per lo stesso sesso (omosessualità), o per gli entrambi sessi (bisessualità)» (Soler, 2005, p. 7). Se guardiamo alla storia della umanità vediamo che l’orientamento sessuale è stato considerato in vari modi a seconda dei diversi periodi storici e culture. «La concezione dell’omosessualità si è evoluta nel corso della storia. All’inizio è stata considerata come normale e naturale, poi come peccato, delitto, malattia o disturbo mentale. La concezione attuale la ritiene una variante del comportamento sessuale normale» (Campo, 2005, p. 22).

L’identità sessuale è data dalla dimensione biologica e psicologica che permettono all’individuo di riconoscersi come appartenente ad un sesso, maschile o femminile, indipendentemente dall’identità di genere (sentirsi maschio o femmina) o dall’orientamento sessuale (trend o inclinazione sessuale). Questo concetto è strettamente legato all’identità di genere, al punto che spesso vengono utilizzati come sinonimi.

Il comportamento sessuale umano è il comportamento che gli esseri umani sviluppano per trovare partner sessuali, ottenere l’approvazione di potenziali compagni, stringere relazioni, e dare voce al desiderio sessuale. Si riferisce ad un ampio spettro di comportamenti che vanno dai più usuali ai meno frequenti, dalle relazioni di coppia agli abusi sessuali.

(…)

L’articolo affronta i seguenti temi:

  • L’origine del concetto di identità sessuale
  • Freud e l’omosessualità
  • La psicoterapia della Gestalt e l’omosessualità
  • Una breve riflessione psicologica

 
 

Quaderni di Gestalt, Vol XXVII, 2014-1, I vissuti sessuali in psicoterapia
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da Franco Angeli

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intenzionalità

Dall’enteroception al sostegno dell’intenzionalità di contatto.

Simulata di una seduta dal vivo

-Margherita Spagnuolo Lobb e Vittorio Gallese

L’articolo consiste nella trascrizione di una seduta dal vivo condotta, durante un convegno, da Margherita Spagnuolo Lobb, e nel commento da parte del neuroscienziato Vittorio Gallese, che ha assistito alla seduta. Il risultato è un originalissimo confronto su temi che riguardano l’interfaccia tra psicoterapia e neuroscienze. La partecipazione del terapeuta, il suo sentire in maniera “incarnata”, diventa possibilità per il paziente di consapevolezza di sé e strumento terapeutico per coglierne e sostenerne l’intenzionalità di contatto. In una prospettiva estetica e processuale, la seduta è stata incentrata sull’esperienza percettiva e propriocettiva in cui la dimensione corporea e le risonanze sensori-motorie e affettive del qui- ed-ora hanno giocato un ruolo fondamentale.

Il neuroscienziato ha inoltre collegato l’enterocezione usata dalla terapeuta (la consapevolezza del battito cardiaco) ai recenti studi sul sistema nervoso autonomo e sistema nervoso centrale, e ha ricordato gli studi sul fenomeno della “mano di gomma”, che rilevano come una maggiore capacità di sentirsi dentro correli con un confine del sé corporeo più stabile, meno facilmente violabile da illusioni.

(…)

1. Commento del professor Vittorio Gallese

Vittorio Gallese. Questo è un tema di grandissima attualità nelle neuroscienze cognitive, la “parola magica” oggi è Enteroception, cioè “enterocezione”, il “sentirsi”. Per esempio, un aspetto affascinante del fumare è quello che attiene al sentirsi da dentro, cioè a sentire i polmoni che si dilatano, che accolgono il fumo, e questa è una sensazione che se viene a mancare, “è il venir meno di qualcosa che contribuisce a farmi sentire quello che sono, il venir meno di una componente che contribuiva a darmi un senso di presenza e di identità”.

Oggi si utilizza il parametro dell’enterocezione, cioè, ad esempio, la capacità di leggere e di diventare consapevoli del proprio battito cardiaco. Questa capacità cambia da individuo ad individuo e si utilizza come oggettivazione dell’esperienza soggettiva, da mettere in relazione con profili di personalità o con quadri psicopatologici.

In un lavoro pubblicato recentemente in cui si impiegava la cosiddetta “illusione della mano di gomma”, si è visto come le persone con un alto grado di consapevolezza enterocettiva, che quindi hanno una percezione della propria frequenza cardiaca che è molto vicina a quella effettiva, sono anche quelle meno prone a questo tipo di illusione. Una maggiore capacità di sentirsi dentro, correla con un confine del sé corporeo più stabile, meno facilmente violabile da questo tipo di illusioni. Nella psicosi schizofrenica, invece, l’essere esposti a questo tipo di illusioni è aumentato. Questa è un’altra prova dell’importanza dei confini del sé corporeo

…Mi chiedo dove si arriva, c’è poi una progressione; hai fatto qualcosa di condensato?

Margherita Spagnuolo Lobb. No, non ho fatto qualcosa di condensato, ma di contestualizzato. Quello che accade …

(…)

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011/2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 90

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adolescenza

Giovani funamboli: esperienze depressive in adolescenza

-Michele Lipani e Elisabetta Conte

L’articolo propone una chiave di lettura dell’esperienza depressiva che può essere vissuta da molti adolescenti e che spesso si colloca sul crinale tra “fisiologia” e rischio psicopatologico. L’aspetto fenomenologico viene delineato sullo sfondo di significati culturali, evolutivi, e, in sintonia con l’approccio gestaltico, nella prospettiva della teoria del sé. Alla proposta di lettura teorica seguono alcune possibili direzioni di supporto psicoterapeutico.

(…)

Le “forme depressive” durante l’adolescenza

In adolescenza i segnali del vissuto depressivo sono spesso espressi dal corpo con sintomi somatici, oppure con comportamenti che possono apparire anche molto distanti, se non opposti, rispetto alla tonalità depressiva.

Nella fase preadolescenziale possono manifestarsi difficoltà legate all’inibizione, o ad atteggiamenti e comportamenti più tipici dell’infanzia, pensiamo ad esempio al racconto dei genitori di Edoardo, sgomenti perché il loro figlio quattordicenne, angosciato dalla solitudine, non riesce ad addormentarsi se non è accanto al padre.

In genere è raro che in adolescenza la depressione si manifesti come entità clinica chiaramente definita negli stessi termini in cui lo è per l’adulto, l’isolamento e il ritiro ostinato invadono in misura minore il campo dell’esperienza depressiva adolescenziale.

La valenza depressiva può invece manifestarsi sotto forma di “equivalenti depressivi” quali noia, affaticabilità, dolori addominali, ipocondria, difficoltà scolastiche (Cappelli e Cimino, 2002; Carau, 2008; Saottini, 2008).

Talvolta lo sfondo depressivo può essere “mascherato” dall’assunzione di sostanze o da un’alterazione del rapporto con il cibo. Tali comportamenti, secondo alcuni autori, possono essere letti come tentativi di “autoterapia” nei confronti della depressione (Bracconier et al., 1995).

Altri comportamenti sembrano tentativi di sfuggire alla sensazione di crollo. Seppure inquadrabili in problematiche diverse e complesse, possiamo considerare il significato depressivo di molti comportamenti di tipo aggressivo o comunque a rischio, come quelli di Massimo, il quindicenne che continua ad avere incidenti spericolati con lo scooter; o ancora Carla, la diciassettenne che ha rapporti sessuali con quasi tutti quelli che la corteggiano, e chiede poi come fare a sapere se ha avuto un orgasmo; o Miriam, sua coetanea, che quando è “nervosa” si tagliuzza i fianchi («non le braccia perché i genitori potrebbero accorgersene»).

(…)

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014/2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 95

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autismo

Le persone con autismo possono riconoscere le emozioni?

-Antonio Narzisi e Filippo Muratori  

Il contributo che qui presentiamo, estrapolato da un più ampio lavoro di ricerca sul profilo neuropsicologico delle persone con autismo ad alto funzionamento condotto presso l’Istituto Scientifico Stella Maris di Pisa (Narzisi et al., 2011), vuole essere un apporto a tale dibattito.

Prima di addentrarci nello specifico del lavoro di ricerca è opportuno ricordare che con il termine disturbi dello spettro autistico (ASD) s’intende una costellazione di disturbi che si caratterizzano per la presenza di una sintomatologia che riguarda una difettualità a livello della comunicazione e dell’interazione sociale e per la presenza di comportamenti stereotipati e ripetitivi (APA, 2000).

Dal punto di vista qualitativo, un sintomo tradizionalmente ascritto alle persone con autismo è quello di non essere in grado sia di decodificare ed interpretare gli stati emotivi dell’altro (Buitelaar, van der Wees, Swaab-Barneveld, van der Gaag, 1999) che di riconoscere le emozioni attraverso compiti di etichettatura delle espressioni facciali esprimenti stati d’animo (Bormann-Kischkel, Vil- smeier, Baude, 1995; Tantam, Monaghan, Nicholson, Stirling, 1989).

La caduta prestazionale delle persone con autismo in compiti di riconoscimento delle emozioni è sottolineata anche da recenti studi di neuroimaging che hanno mostrato una ridotta attivazione del giro fusiforme durante le attività di riconoscimento facciale delle espressioni emotive (Piggot et al., 2004; Wang, Dapretto, Hariri, Sigman, Bookheimer, 2004). Ma, nonostante la letteratura sia concorde nell’affermare una difettualità nelle persone con autismo in compiti di riconoscimento dell’emozione, esiste un corpus sempre più consistente di contributi scientifici che depone in favore del riconoscimento delle emozioni nei soggetti con autismo (Buitelaar et al., 1999; Castelli, 2005; Grossman, Klin, Carter, Volkmar, 2000; Ozonoff, Pennington, Rogers, 1990; Tracy et al., 2011). Secondo questi contributi, le persone con autismo, definite anche “neurodiverse” (Mottron, 2011), mostrano adeguati livelli di prestazioni in compiti standardizzati di discriminazione delle emozioni. …

L’articolo tratta anche i seguenti temi:

2. Il modello psicologico bi-fattoriale
3. Empatia Cognitiva: Verbale vs Contestuale

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011/2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 100

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esperienze depressive

Le esperienze depressive in psicoterapia della Gestalt (Parte II)

-Margherita Spagnuolo Lobb

Questo articolo tratta quattro aspetti dell’esperienza depressiva: 1. il suo senso ontologico in quanto esperienza umana, 2. l’epistemologia gestaltica delle esperienze depressive, in confronto con l’epistemologia psichiatrica, 3. una lettura fenomenologica ed estetica delle esperienze depressive in psicoterapia (distinguendo tra depressioni reattive, “incarnate” e psicotiche), 4. una considerazione politico-sociale della depressione giovanile nella società contemporanea.

(…)

Le esperienze depressive (e maniacali) nell’epistemologia della clinica gestaltica e della psichiatria

Occorre chiarire una differenza sostanziale tra l’epistemologia psichiatrica e quella gestaltica dell’esperienza depressiva. La prospettiva psichiatrica sulla depressione parte dalla considerazione di una alterazione dell’umore (cfr. Kraepelin, 1907; Meyer in Lief, 1948). Il concetto psichiatrico di depressione infatti non è di una “diminuzione” dell’energia ma di un aumento non controllato di umore negativo. Questo spiega anche la considerazione della mania come corrispettivo polare della depressione: ambedue sono alterazioni dell’umore, mancanza di controllo della qualità umorale delle relazioni.

Il focus è sull’alterazione dell’umore, non sui contenuti umorali, tant’è che nel caso del disturbo bipolare cambiano i contenuti, non il processo disfunzionale. Una considerazione gestaltica dell’esperienza depressiva deve necessariamente riformulare questo concetto in termini di energia-verso-il-contatto. L’umore infatti è un concetto riferito all’individuo in sé, e non al suo contattare l’ambiente. Il focus si sposta dall’umore al coinvolgimento energetico nel contatto. …

Tornando alla precedente definizione delle esperienze depressive come rinuncia al desiderio di essere desiderati, possiamo dire che nella clinica psicoterapica esse si incontrano frequentemente, sia come una fase evolutiva della persona posta di fronte ad uno stress o ad un lutto, sia come strutturazione “incarnata” dell’esperienza di contatto con l’altro.

Altre volte ancora incontriamo la depressione in modalità esperienziali psicotiche; esse emergono dalla condizione percettiva di base tipica della psicosi, che non consente la leggerezza del sentirsi confinati rispetto all’altro e all’ambiente (cfr. Spagnuolo Lobb, 2003; Francesetti, Spagnuolo Lobb, 2013).

Lo sfondo esperienziale è turbolento e confuso, non consente l’emergere dell’esperienza chiara e nitida di un sé separato dal e connesso col mondo. La figura depressiva prende la forma di uno stato stuporoso, una condizione di irraggiungibilità in cui l’energia del sé appare “sospesa” (mentre in altre forme psicotiche, come nella schizofrenia, c’è energia nello spazio “tra”, che ovviamente non è collegata ad una co- determinazione dei soggetti in contatto).

(…)

L’articolo tratta i seguenti temi:

2.1. Il contatto depressivo come sinfonia di domini
2.2. La depressione reattiva
2.3. La depressione “incarnata”
2.4. L’esperienza depressiva psicotica
2.5. Le esperienze maniacali

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014/2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 57

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approccio

Verso un approccio più profondamente incarnato

in psicoterapia della Gestalt

-James I. Kepner

Questo articolo esamina criticamente l’evoluzione del lavoro ad orientamento corporeo in psicoterapia della Gestalt. L’autore evidenzia i punti di forza dell’approccio gestaltico, come il lavoro sul presente ed il punto di vista integrato, ma ne sottolinea anche alcune possibili limitazioni teoriche come un’interpretazione troppo ristretta dell’epistemologia dei fondatori, l’inadeguatezza del considerare solo la consapevolezza ai fini del cambiamento psicofisico, la mancata inclusione di concetti strutturali e di metodologie corporee che comprendano il toccare ed il movimento e altri metodi corporei. Viene inoltre descritto un breve modello per mostrare i molti livelli di complessità di un approccio pienamente incarnato.

La pubblicazione di Body Process. Il lavoro con il corpo in psicoterapia (Kepner, 1987; trad. it., 1997) risale a ventuno anni fa. In quel libro avevo tentato di delineare una psicoterapia più pienamente orientata al corpo secondo l’approccio gestaltico. La psicoterapia della Gestalt, infatti, si è da sempre interessata al processo e all’esperienza corporea, ma la sua metodologia in questo ambito era rimasta fino a quel momento molto limitata.

L’uso fatto da molti terapeuti della Gestalt di alcune tecniche corporee intensive era a mio avviso una sorta di innesto di metodi o approcci talvolta incompatibili con le tecniche gestaltiche, e il risultato era spesso un pastic- cio poco integrato. A quei tempi ero un “Giovane Turco” di trentaquattro anni con la presunzione di correggere gli anziani e gli insegnanti del mondo gestaltico, rei a mio parere di non spingersi abbastanza in là nel lavoro corporeo. Forte della mia formazione in metodi prettamente corporei, e dei miei studi approfonditi su processi come la postura, la struttura corporea e il respiro, sentivo di avere una prospettiva precisa e la convinzione di aver qualcosa da dire.

Tuttavia, considero oggi questo testo semplicemente l’elaborazione di un punto di partenza per lo sviluppo di un approccio gestaltico orientato al lavoro corporeo, e solo ora, dopo molti anni di pratica, sono in grado di comprendere più pienamente il significato di un approccio incarnato. Sono d’altra parte grato per il posto che Body Process ha occupato nella letteratura gestaltica in tutti questi anni, come testo di base di molti programmi di formazione.

Certo, mi piacerebbe pensare che la longevità di questo testo sia dovuta alla mia grande erudizione, temo tuttavia che dipenda più che altro dal mancato sviluppo di un più ricco approccio corporeo in psicoterapia della Gestalt. Che Body Process non sia ancora stato soppiantato è forse una cri- tica implicita della attuale situazione della psicoterapia della Gestalt per quanto riguarda il lavoro sulla realtà incarnata della persona.

(…)

L’articolo tratta di:

1. La cosa più reale…
2. Body Process: sequenza non è “conversione”
3. Pezzi mancanti
4. Ampliare l’epistemologia ristretta della psicoterapia della Gestalt1
5. La consapevolezza non è sufficiente per un cambiamento psicofisico
6. Metodi fisici per la terapia corporea
7. Dove ci troviamo e di che cosa abbiamo bisogno
8. Verso un futuro incarnato

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2013/1, L’esperienza corporea in psicoterapia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 67

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crescite difficili

Crescite difficili. La Gestalt incontra il trauma

-Anna Fabbrini

Il testo affronta il tema del trauma relazionale. Prende in esame la relazione di cura basata sul potere e i suoi effetti distruttivi sulla crescita cognitiva ed emotiva della persona, privata del riconoscimento identitario. Gli strumenti della psicoterapia della Gestalt, la ricostruzione autobiografica e l’elaborazione della memoria corporea, si sono rivelati efficaci per generare nuove matrici di dipendenza fiduciosa in grado di riparare il danno.

(…)

La crescita sana

In una crescita sana la relazione genitore-figlio generalmente è caratterizzata da una dominanza di benevolenza, tanto che l’amore materno e genitoriale è il paradigma stesso di tutte le forme di amore. Il bambino viene al mondo biologicamente e psicologicamente dipendente con un bisogno assoluto di cure per la sua sopravvivenza e il rapporto di accudimento non riguarda solo il fatto di stabilire una buona relazione affettiva, ma ha una portata che potremmo definire ecologica, in quanto genera mutamenti positivi anche nell’intero ambiente dentro il quale il bambino è immerso con tutte le altre presenze (cfr. Bollas, 1989).

Una buona relazione di cura attraverso lo scambio di affetti e premure, non influenza solo la relazione ma è produzione culturale. È la creazione di un intero mondo di valori, significati e legami estesi. La relazione di cura diventa così la matrice della bontà del mondo, oltre che costruire il fondamento della fiducia primaria.

Anche se oggi siamo propensi a vedere il bambino come un essere fin da subito competente, interattivo, e relazionale, nessuno negherebbe che si trova in una posizione strutturalmente asimmetrica e totalmente dipendente in quanto la relazione tra il genitore e il piccolo è caratterizzata per sua natura, dalla presenza di ampio spazio di potere da parte dell’adulto.

È evidente che in una crescita sana questo potere viene interamente messo al servizio della cura e lo scambio che si stabilisce è abitato, oltre che dall’amore, dal senso etico che il piccolo è una persona degna di rispetto, è portatore di una sua individualità.

Questa forma di contatto, che mantiene per lungo tempo l’asimmetria che lo caratterizza – questo processo, nella nostra cultura dura almeno un ventennio – si fonda sul rispetto della persona, dicevo, non malgrado, ma proprio grazie al giusto riconoscimento della dipendenza che determina i ruoli diversi.

L’adulto esplica il suo compito attraverso l’affetto e la protezione, ma anche attraverso gli interventi correttivi, educativi, il dare le regole e il fornire tutte le forme di insegnamento e trasmissione della conoscenza del mondo. Il potere dell’adulto è dunque la messa in atto di quello che Hillman (2009) chiama il potere sottile, che compara a quello del giardiniere che coltiva e fa crescere e che negli esseri umani, coltiva e fa crescere la creatività, la disposizione ad apprendere dall’esperienza, il senso della fiducia, della giustizia, della speranza e del coraggio, la capacità di riparazione, il sogno e il desiderio.

Del potere si parla troppo poco in psicologia perciò mi ha molto colpito quella che ritengo essere una delle definizioni più belle che ho incontrato riguardo all’obiettivo della psicoterapia della Gestalt: «Il massimo scopo della terapia della Gestalt è di volgere le relazioni di potere in relazioni d’amore» (Portele, 1995, p. 58).

In questo contesto, la parola amore evoca non semplicemente un moto del cuore, ma presenza di una costellazione articolata di sentimenti e di principi etici come: il rispetto, l’ascolto, la disposizione a valorizzare la diversità anche in presenza di un eventuale conflitto, volgendolo a confronto, ad argomentazione o negoziato, assumendo che l’altro sia portatore di una mente e di una dignità così come noi abbiamo una nostra mente e una nostra dignità.

(…)

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014/2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 81

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espressioni depressive

Le esperienze depressive in psicoterapia della Gestalt

-Margherita Spagnuolo Lobb

Questo articolo tratta quattro aspetti dell’esperienza depressiva:
1. il suo senso ontologico in quanto esperienza umana
2. l’epistemologia gestaltica delle esperienze depressive, in confronto con l’epistemologia psichiatrica
3. una lettura fenomenologica ed estetica delle esperienze depressive in psicoterapia (distinguendo tra depressioni reattive, “incarnate” e psicotiche)
4. una considerazione politico-sociale della depressione giovanile nella società contemporanea

Gioia e dolore sono doni ugualmente preziosi che bisogna assaporare a fondo, ciascuno nella sua purezza (…).
Mediante la gioia la bellezza entra nella nostra anima.
Mediante il dolore entra nel nostro corpo (…) bisogna aprire ad entrambi il centro stesso dell’anima (…).

Simone Weil (2008)

1. Le esperienze depressive come esperienze umane

Definire l’esperienza depressiva ci porta immancabilmente a definire l’esperienza di felicità, che è stata sempre un passo obbligato per i filosofi, per gli psicoterapeuti e oggi anche per i genetisti. Definire la felicità e la sua mancanza implica definire l’ontologia dell’essere umano, come pure la sua sanità e malattia, nonché le sue mete evolutive ed etiche. Già ne Il disagio della civiltà, Freud (1929) proponeva la necessità di rinunciare alla felicità per garantirsi la sicurezza (il dominio sui bisogni, lo spostamento della libido verso la sublimazione, l’appagamento fantasticato sussidiario, ecc.), sistematizzando uno split tra bisogni individuali e bisogni sociali (Spagnuolo Lobb et al., 1996).

Il pensiero esistenziale e quello fenomenologico offrivano poi il ponte per collegare i poli di questo split: Sartre proponeva una dialettica natura-cultura in cui il desiderio (da pulsione basica di natura esclusivamente animale) diventava appello alla trascendenza, categoria fondamentale dell’essere, coscienza della mancanza che si è (cfr. Dumoulié, 1999), fino alla formulazione di Lacan che parlava di “desiderio del desiderio dell’altro”, fondando un’etica relazionale basata sull’esperienza dell’incertezza (cfr. Prigogine, 1996). In questa prospettiva, l’esistenza non è tollerabile senza il desiderio, anzi per dirla con Heidegger (1962), il desiderio è implicito nella natura progettuale dell’uomo.

La dimensione temporale del desiderio segna uno spartiacque tra l’analisi del desiderio passato, che conferisce carica al comportamento attuale ma che non potrà mai realizzarsi pienamente (appunto perché differito), e il desiderio ontologicamente inteso come parte della progettualità umana, come desiderio di essere desiderato dall’altro, come sicurezza autonoma che deriva da uno sfondo di appartenenza e di reciprocità, o di intercorporeità, come sottolinea Merleau-Ponty (2003). Ecco, credo che l’esperienza depressiva abbia a che fare non tanto con la frustrazione del desiderio passato, quanto con la rinuncia al desiderio di essere desiderato.

Si tratta di uno spostamento di paradigma da una comprensione causale (si è depressi per un fallimento della carica energetica impegnata in investimenti affettivi e sociali importanti) ad una comprensione esperienziale, fenomenologica: chi è depresso non desidera più di essere desiderato, di essere amato dall’altro, a prescindere dalle frustrazioni ricevute. Questo taglio ci consente di apprezzare l’esperienza depressiva per quello che è, senza cercare di spiegarla per farcene una ragione. La cura consiste conseguentemente nello stare accanto a chi non desidera di essere desiderato, senza mire di cambiamento ma cercando un filo che possa unire le due esistenze, quella del paziente e quella del terapeuta.

In linea con il pensiero aristotelico, e gettando luce su un altro aspetto dell’esperienza depressiva, Galimberti (2009) collega la depressione al non riconoscere ciò che si è, e pertanto al non porre limiti ai desideri. Egli considera la felicità come un mito dei nostri tempi e oppone all’idea di felicità “commerciale”, stagnante e fuori dal nostro controllo che la società ci propone (generando dunque depressione), il dovere etico, di aristoteliana memoria, di una felicità che dipende da una conoscenza di sé e dunque dal limitare i desideri a ciò che è possibile, secondo l’idea nietzschiana del “diventa ciò che sei”. La felicità non come soddisfazione di desideri dunque, né come premio, ma come virtù di governare se stessi. L’esperienza depressiva deriverebbe in questo senso dalla mancanza di governo di sé, dal non sentire ciò che si è. Ritengo che questa etica della felicità è assolutamente necessaria in una società come la nostra, dominata dalla globalizzazione delle comunicazioni e contestualmente dalla mancanza di relazioni contenitive: due condizioni che portano i nostri giovani all’impossibilità di sentire se stessi, innanzitutto a livello di sensazioni corporee e poi anche di emozioni, e dunque all’emergere del sentimento depressivo (cfr. Spagnuolo Lobb, 2013, p. 24 ss.).

Coerentemente con la visione etica di Galimberti, Natoli (1994) definisce la felicità come uno stato di grazia, naturale, che non necessita di riflessione, mentre il suo opposto, il dolore, chiude in una fatale solitudine, scollegata dalla naturalità della persona umana in psicoterapia della Gestalt diciamo dalla spontaneità del sé (Spagnuolo Lobb, 2005).

Mi piace il termine borderland usato da Callieri (2008; 2010) per indicare la terra di mezzo tra sicurezza e desiderio (potremmo anche dire tra appartenenza e divergenza) in cui accade l’apertura alla speranza della felicità. Mi sembra che nell’esperienza depressiva manchi questa apertura, questo respiro pieno, questo porsi in prospettiva dell’accadere, o del now-for-next (Spagnuolo Lobb, 2010) proprio nella situazione del vivere la traità, il passaggio da sé all’altro, o il modo medio così mirabilmente descritto da Goodman (Perls et al., 1951). Siamo ontologicamente proiettati al futuro, l’esperienza depressiva implica un crollo di questa dimensione ontologica dell’essere umano.

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli

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sofferenza

Marta e i “buchi nel cielo”: la sofferenza borderline

– Paola Zarini.

Odi et amo. Quare id faciam Fortasse requiris Nescio,
sed fieri sentio et excrucior.
Gaio Valerio Catullo (Liber, Carme 85)

(La) percezione di arrivare all’altro intero è ciò che il paziente con disturbo borderline di personalità cerca per tutta la vita e che chiede al terapeuta.
Margherita Spagnuolo Lobb (2014)

Quando ho immaginato di scrivere un articolo sulla mia esperienza clinica con la sofferenza borderline, nella mente, tra numerosi volti, ha preso forma quello di Marta, una donna di quarant’anni che seguo da oltre dieci. Il viaggio terapeutico con questa paziente, è forse quello che più mi ha consentito di esplorare i vasti territori di questo tipo di sofferenza. È stato per me un viaggio trasformativo, come terapeuta e come persona che mi ha chiamata in primo luogo ad una sottile ed accurata modulazione della presenza nella relazione terapeutica e ad una estrema chiarezza dei miei confini.

Con lei ho imparato inoltre l’importanza del profondo rispetto dei confini dell’altro, confini feriti da definizioni intrusive e manipolatorie all’interno dei campi relazionali primari (cfr. cit. From, in Spagnuolo Lobb, 2014, pp. 666- 668), e la cura puntuale nel sospendere qualunque forma di giudizio e di definizione dell’esperienza se non in modo cauto e pienamente co-costruito

Aspetti diagnostici e storia personale

Marta, come dicevo, è oggi una donna di quarant’anni. La sua domanda di aiuto coincide con la nascita del primo figlio, 10 anni fa, e nasce a partire da un profondo stato di malessere e senso di vuoto acutizzatosi nel periodo del post partum. In precedenza aveva sofferto di attacchi di panico per i quali era stata seguita farmacologicamente da uno psichiatra. Tale sofferenza era stata a tratti così invalidante da non permetterle di lavorare o da costringerla a ripetuti cambi di mansioni e ambiti professionali.

Quando la incontro per la prima volta la terapia farmacologica è stata sospesa da più di un anno e, con l’inizio della terapia, non sarà più necessario ricorrervi. Il quadro personologico di Marta rientra nella classificazione di Kernberg di organizzazione borderline della personalità (BPO), in particolare in quello che Kernberg (Clarkin, Yeomans e Kernberg, 2000) descrive come «il gruppo meno grave, con una maggiore capacità di relazione di tipo dipendente con gli altri significativi, maggior capacità di investimento nel lavoro e nelle relazioni sociali e un minor numero di manifestazioni non specifiche di debolezza dell’Io» (p. 8).

Marta nasce da una madre abbandonata il giorno del matrimonio all’ottavo mese di gravidanza, e da un padre che la riconosce e poi scompare, lasciandole in eredità un cognome alieno e senza volto (nelle fotografie che le mostrano da piccola al posto del volto paterno, ritagliato, restano visibili solo dei buchi). Ancora oggi il tema della verità dell’origine della sua storia resta per certi versi insondabile, e benché sia arrivata molto vicina, da adulta, a conoscere il padre, a colmare quei “buchi nel cielo”, la sola presenza in vita della madre continua a rappresentare per lei la non legittimazione ad avere accesso alla propria storia.

Nella vita di Marta-bambina l’esperienza dell’“altro assente” si costruisce all’interno della relazione con la madre in termini di presentificazione dell’abbandono, e si riattiva in ogni successiva relazione secondo due schemi esperienziali inconciliabili: il primo fondato sull’amore sconfinato e l’idealizzazione dell’altro (il padre che avrebbe desiderato esserle accanto più di ogni altra cosa, ma che forze avverse hanno tenuto lontano), il secondo sull’odio, la rabbia e la svalutazione dell’altro (il padre che l’ha abbandonata alla nascita senza mai più interessarsi a lei e di lei).

Marta cresce nella famiglia della madre, accudita nel quotidiano dai nonni, aggrappata e risucchiata insieme in un campo relazionale materno caratterizzato da giochi manipolatori e intrusioni emotive molto potenti, veri e propri abusi. Inizia presto, e in questo tipo di campo, l’esperienza di oscillazione tra desiderio di raggiungere l’altro ed esserne raggiunta, e bisogno di respingerlo, nel tentativo di proteggere i propri confini.

Se l’infanzia trascorre nella penosa ricerca di una presenza materna stabile e rassicurante, l’adolescenza vede palesarsi in forme nette ed esplosive gli aspetti più confusivi, manipolatori ed aggressivi della loro relazione; la madre coinvolge Marta nella propria irrequieta vita sentimentale, in una gara competitiva verso gli uomini, chiamandola seduttivamente “all’altezza del proprio mondo adulto” e nel contempo squalificandola per il “non esserne all’altezza”, in uno scenario a dir poco confusivo e disorientante per l’identità adulta emergente della figlia.

Raggiunta presto l’indipendenza economica e attraversate numerose relazioni affettive turbolente e sofferte, Marta approda ad un legame più stabile, si sposa e mette al mondo un figlio. Malgrado l’acutizzarsi della sofferenza dopo la maternità, che porta Marta alla decisione di intraprendere una psicoterapia, la relazione col figlio rappresenterà per lei una risorsa e un’occasione trasformativa straordinarie.

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 109

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