sessualità

L’amore e la sessualità nel setting di cura: psicoanalisi e psicoterapia della Gestalt a confronto

– Paolo Migone intervistato da Barbara Crescimanno

Barbara Crescimanno: La società post-moderna, con il suo approccio “globalizzante” e l’avvento delle nuove tecnologie, ha prodotto cambiamenti di notevole proporzione in tutti i campi dell’esperienza umana. Tale cambiamento diventa ancora più evidente in tutto l’ambito della relazione umana in generale e della relazione sessuale e “intima” in particolare, per cui il concetto stesso di intimità sembra perdere la sua indispensabile connotazione originaria legata al corpo e al sentire. Tutto questo conduce a modi nuovi di vivere e agire la sessualità. Come per altri modelli di cura, a suo parere, ciò comporta anche per la psicoanalisi una rilettura della teoria pulsionale delle emozioni e una conseguente rivisitazione della prassi clinica?

Paolo Migone: L’avvento di internet ha provocato, tra le altre cose, una disponibilità immediata di immagini e video a contenuto sessuale virtualmente per tutti (basta infatti avere un cellulare collegato a internet). È possibile che questa esposizione sempre più precoce a stimolazioni sessuali provochi grosse modificazioni nel modo con cui viene vissuta la sessualità in soggetti giovani che hanno raggiunto una maturità sessuale senza però aver ancora raggiunto una maturità affettiva (penso soprattutto ai maschi, che emotivamente maturano più tardi delle femmine).

Mi è capitato di leggere su un quotidiano una inchiesta sulla sessualità nei giovani teenagers che mi ha lasciato sconcertato, nel senso che per me, e per chi frequentavo quando avevo la stessa età, vi era una esperienza molto diversa. Adesso la “maturazione” sessuale è molto più precoce, ma forzatamente precoce, e vi possono essere squilibri. Sembra che oggi i ragazzi “giochino” con la sessualità così come noi giocavamo con le figurine, per così dire. È molto probabile che questo conduca a un modo molto diverso di vivere l’affettività, ma preferisco non sbilanciarmi in considerazioni a un alto livello di astrazione, dato che non sono un sociologo o un filosofo. Sono solo un terapeuta, un “tecnico”, e il mio angolo di visuale è ristretto. Non vorrei assomigliare a quei colleghi che fanno i tuttologi in televisione, rischiando a volte di dire banalità, cose che qualunque persona di buon senso potrebbe dire.

Mi sembra più facile invece rispondere alla domanda sul ruolo della pulsione sessuale nella psicoanalisi contemporanea. Tanto è stato scritto su questo. Il modo con cui è vissuta la sessualità è cambiato, non siamo più ai tempi della Vienna di Freud quando la sessualità veniva repressa e le donne erano in una condizione di oggettiva inferiorità e oppressione. Questi fattori, come è noto, hanno avuto una profonda influenza sulla teoria freudiana che, ad esempio, concepiva un conflitto ineliminabile tra le pulsioni e la società (tra “eros e civiltà”, per parafrasare un famoso libro di Marcuse). L’isteria classica, che allora era epidemica e che oggi non a caso è scomparsa, era vista come una malattia femminile, quasi un grido di ribellione o di sofferenza a causa della repressione sessuale (mi viene in mente che Freud fece anche l’ipotesi che l’arco isterico, cioè l’attacco simil-epilettico delle crisi isteriche classiche, potesse essere una simulazione dell’orgasmo che le donne non riuscivano quasi mai a raggiungere a causa di uomini insensibili ed egocentrici, o che praticavano rego- larmente il coitus interruptus come metodo anticoncezionale).

Oggi la sessualità è più libera, e per questo quella parte della teoria freudiana che aveva fatto leva sul concetto di repressione sessuale come fonte di conflitto non è più sostenibile come lo era allora. Non a caso, ad esempio, sono i conflitti attorno all’attaccamento, alle relazioni affettive, alla identità, al significato dell’esistenza, quelli che sono in primo piano. Ma queste trasformazioni sono avvenute molti anni fa, ben prima dell’avvento delle cosiddette “nuove tecnologie” (si pensi solo al fenomeno della Psicologia del Sé di Kohut, iniziato a cavallo degli anni 1970, che appunto rappresentò anche una “reazione di massa” contro una concezione freudiana della sessualità che molti avvertivano come superata).

Barbara Crescimanno: Fin dalle origini del pensiero psicoanalitico e in tutta la sua evoluzione successiva, la riedizione ed elaborazione dei vissuti sessuali nel setting psicoterapeutico, attraverso i concetti di transfert e controtransfert, sono stati temi centrali e strutturanti della teoria e della prassi clinica. Dalla psicoanalisi classica alla psicoanalisi interpersonale più recente, attraverso le diverse correnti, in che modo è cambiato, se è cambiato, l’intervento clinico rispetto all’elaborazione dei vissuti sessuali nel setting? Qual è il suo approccio a riguardo?

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-1, I vissuti sessuali in psicoterapia
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli

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corpo come veicolo

Il corpo come “veicolo” del nostro essere nel mondo.

L’esperienza corporea in psicoterapia della Gestalt
– Margherita Spagnuolo Lobb

“L’esperienza della nostra corporeità
non è l’esperienza di un oggetto,
ma del nostro modo di abitare il mondo”

U. Galimberti (1989)

Ho scelto la parola “veicolo” , in riferimento al corpo, nel titolo di questo lavoro perché penso che esprima bene, oggi, la prospettiva gestaltica sul corpo. Essa non è né analitica, né reichiana/corporea: per la psicoterapia della Gestalt, l’esperienza corporea è innanzitutto esperienza di movimento-con (concetto oggi affermato tra l’altro anche dalle neuroscienze). Essa è colta nella sua valenza fenomenologica ed estetica, che consente di dare sostegno al movimento come now-for-next.
Nel setting terapeutico, che è il contesto che ci interessa maggiormente, l’esperienza corporea esprime il movimento di integrazione/contatto per cui il paziente chiede sostegno al terapeuta.
In questo articolo prenderò in considerazione l’esperienza corporea in un modo che sia coerente con l’ermeneutica gestaltica, e che metta in luce i punti cruciali con cui sviluppare un aspetto così centrale per il nostro approccio – forse proprio per questo a volte dato per scontato. In un percorso che parte dall’antropologia e, passando dallo sfondo culturale e teorico dei fondatori, arriva allo specifico gestaltico contemporaneo sul corpo, cercherò di rispondere alle domande “qual è, per uno psicoterapeuta della Gestalt, il modo più naturale di considerare l’esperienza corporea propria e del paziente?” e “in che modo il coinvolgimento dell’esperienza corporea rende l’intervento terapeutico gestaltico efficace?”.
L’articolo sviluppa i senguenti temi:
1. La prospettiva antropologica in cui si pone l’esperienza corporea in psicoterapia della Gestalt
2. Il corpo come sede di relazioni incarnate e come “movimento” della creatività del sé
3. Esperienza corporea come ad-gredere: il sostegno al now-for-next
4. L’estetica dell’esperienza corporea come un “emergere” da un campo fenomenologico
5. L’esperienza corporea come esperienza del sé (funzioni-es, funzione-io e funzione-personalità)

  1. L’ansia, le somatizzazioni, la desensibilizzazione: l’esperienza cor- porea nella clinica
  2. Il lavoro sul corpo in psicoterapia della Gestalt

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVI, 2013/1, L’emergere dell’esperienza somatica nel campo fenomenologico
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 41
 

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triadico

Dal triadico al quadriadico

il sé gemellare e riflessioni sulla fratria in psicoterapia della Gestalt

-Gina Merlo.

Nel panorama di circa trenta anni fa, nelle teorie di quella che allora veniva definita psicologia dell’età evolutiva, lo sviluppo della struttura di personalità, del sé o delle modalità di contatto del bambino, a seconda del paradigma teorico di riferimento, veniva osservato e teorizzato all’interno della relazione diadica madre-bambino; veniva sottolineata una relazione non circolare, univoca più che biunivoca; la Mahler descriveva una fase iniziale nel bambino di autismo naturale (cfr. Mahler M. et al., 1978).

Grazie agli studi dell’Infant Research, le cui prime pubblicazioni risalgono al 1983, al concetto di costruzione del sé intersoggettivo di Daniel Stern con la pubblicazione de Il mondo interpersonale del bambino (1987) e alla pubblicazione del Il triangolo primario di Elisabeth Fivaz-Depeursinge e Antoinette Corboz Warnery (1999), l’osservazione si è allargata alla relazione triadica, includendo anche la figura del padre.

L’Infant Research ha dimostrato come:

«fin da primi giorni di vita, il neonato e la madre siano predisposti ad agire consensualmente, piuttosto che a vivere da esseri separati e come la matrice relazionale divenga, in questa prospettiva, il campo costitutivo dell’esperienza e dei significati interpersonali e personali, a meno che una deficienza nella relazione di accudimento intacchi la “dimensione relazionale” della psiche» (Sameroff, Emde, Fivaz-Depeursinge et al., 1999, p. 13).

Osservando la famiglia come insieme, attraverso il gioco triadico di Losanna (LTP) E. Fivaz e A. Corboz Warney, affermano che il terzo non è un oggetto o un evento, ma il terzo è il padre. «L’introduzione di una terza persona, invece che di un oggetto, amplia di colpo le possibilità dell’universo psichico ed emotivo del bambino, rendendolo immensamente più ricco e più complesso» (ibidem, p. 67).

«Non vi è quindi da stupirsi se emerge una competenza triadica precoce se i genitori rispondono appropriatamente, e si creano degli “stati di espansione della consapevolezza” a tre per tutte le parti coinvolte» (ibidem, p. 19).

Attraverso queste nuove linee teorico-cliniche viene quindi messa in discussione la visione dello sviluppo, che presuppone un percorso che porta dalla diade alla triade, dalla capacità di regolare le relazioni diadiche, per “poi” accedere a quelle triadiche.

La dott.ssa A. Simonelli, un ricercatore dell’Università di Padova, formatasi con E. Fivaz, sottolinea l’importanza di «considerare la competenza triadica, non come una generalizzazione della dimensione diadica, ma come una competenza a sé». Questa evoluzione teorico-clinica, a mio avviso rivoluzionaria, è rintracciabile nell’ermeneutica del paradigma della psicoterapia della Gestalt, che sin dagli anni ’50 del secolo scorso, ha come elemento fondante il confine di contatto: «La crescita rappresenta la funzione del confine di contatto nel campo organismo-ambiente» (Perls et al., 1971, pp. 248-249).

In psicoterapia della Gestalt, quando parliamo di relazioni, intendiamo tutto quello che avviene al confine di contatto, dando «uno sguardo sulla relazione che non è né intrapsichico né interpersonale né tanto meno sistemico, ma centrato sull’esperienza del “tra”, ossia su quello spazio esperienziale che resta in posizione mediana tra l’io e il tu, tra l’esperienza interna e l’influsso ambientale… si tratta, per l’epistemologia gestaltica, di eventi di confine, in continua evoluzione, a cui il terapeuta della Gestalt guarda in termini processuali, interessato all’evolversi dell’intenzionalità relazionale» (Spagnuolo Lobb, 2001, pp. 9-10).

È quindi ipotizzabile leggere il triangolo primario, in psicoterapia della Gestalt, guardando allesperienza di ogni singolo componente familiare al confine di contatto, in termini olistici, intenzionali e processuali.

– il sé gemellare

– riflessioni sulla fratria

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011-2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 26

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I luoghi della mente e la bellezza

– Pietro A. Cavaleri.

Per migliorare la salute della mente occorre avere cura non solo dell’organismo umano, ma anche dell’ambiente che lo circonda. L’ambiente al quale l’autore si riferisce non è soltanto quello sociale, costituito da altri esseri umani, ma anche un ambiente fatto da realtà e presenze “non-umane”, come gli oggetti, gli spazi, le abitazioni. Sappiamo da tempo come non sia possibile comprendere la mente senza tener conto dei suoi ambienti umani (la famiglia, la comunità, la rete sociale). È giunto il momento di evidenziare come la comprensione e la cura della mente passino anche attraverso una debita considerazione dei suoi “ambienti non-umani”, cioè dei suoi spazi di vita, dei suoi principali “luoghi” di riferimento, come la casa, la città o, più in generale, la natura.

L’uomo e l’ambiente non-umano

Da lungo tempo la cultura occidentale ama utilizzare la metafora della profondità per indicare, soprattutto sul piano qualitativo, qualcosa di molto consistente e pregevole. Non a caso, infatti, è “profonda” una persona che possiede un sapere elevato o un animo molto sensibile. È “profondo” un pensiero originale o complesso. È “profonda” un’amicizia che è stata vagliata dal tempo e dalle difficoltà. È “profondo” un uomo che sa intuire e cogliere in pieno ciò che agli altri sfugge del tutto. Di contro, è “superficiale” tutto ciò che rimanda all’ovvio, al banale, ad una realtà scontata, già vista.

Sicché, per fare un esempio, se la mente con le sue innumerevoli astrazioni e con le sue sofisticate operazioni logiche è “profonda”, il corpo umano con il suo banale coacervo di muscoli e viscere, con la sua scontata fisicità, appare “superficiale”, come del resto l’ambiente che lo circonda, fatto di bruta materia e di inermi estensioni. In modo del tutto implicito, la cultura occidentale contrappone rigidamente la profondità della mente alla superficiale e materiale fisicità del corpo umano. Da un lato è posta la mente e la sua profonda capacità di elaborazione razionale, da un altro lato viene collocato il corpo, con le sue meno nobili funzioni fisiologiche, con le sue strutture meccaniche, con le sue forze istintuali.

Contraddicendo questo radicale dualismo, erroneamente introdotto da un filosofo francese di nome Cartesio, autorevoli studi nell’ambito della neurobiologia hanno dimostrato come la complessa e inafferrabile profondità della mente, quasi paradossalmente, abbia la sua origine e il suo costante alimento nella inesplorata superficie del “confine di contatto”, cioè nella pelle del nostro corpo, nei nostri organi di senso e in ogni altro spazio in cui si concretizza la fondamentale interazione tra l’organismo umano e l’ambiente che di continuo lo circonda (Cavaleri, 2003; Perls, Hefferline, Goodman, 1971).

La mente “pura”, scissa dal corpo, è da considerarsi una astrazione inaccettabile. Il cervello umano e il resto del corpo, invece, costituiscono un organismo inscindibile che, a sua volta, non potrebbe sussistere senza interagire costantemente con l’ambiente circostante. Infatti, è dall’interazione fra cervello, corpo e ambiente che si sviluppano quei processi fisiologici che noi chiamiamo mente.

Sia nei suoi aspetti più elementari, che in quelli più complessi, l’attività della mente implica sempre il coinvolgimento del cervello e del corpo. Le stesse “rappresentazioni” cerebrali (le immagini mentali) non sono mai pure, non possono in qualsiasi caso prescindere dall’esperienza sensoriale. Esse richiedono la presenza del corpo, che fornisce la “materia” indispensabile, fatta essenzialmente di sensazioni, di percezioni, di tensioni muscolari. Le più diverse manifestazioni della razionalità umana sono orientate e sostenute dai sentimenti e dalle emozioni, che a loro volta sono espressione dei meccanismi di regolazione biologica del nostro corpo.

Ciò che in genere viene definita “mente” non può nascere e sussistere senza quella cornice fondante che è il “corpo”. Le nostre azioni più importanti, i nostri pensieri più elevati, le nostre gioie più grandi, i nostri dolori più indelebili hanno come riferimento costante il corpo. Se in passato Cartesio aveva detto: “Penso, dunque sono”, alla luce di queste considerazioni potremmo affermare il contrario: “Sono, dunque penso”. Sono un corpo, sono un flusso di percezioni, di sensazioni, di sentimenti e di emozioni, dunque tutto ciò diventa “materiale” oggetto del mio pensiero e rende possibile il mio stesso pensare.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011-2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 26.

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Dsm 5

I disturbi sessuali nel DSM 5.

Aspetti relazionali tra vecchie e nuove diagnosi

-Maria Salvina Signorelli.

L’articolo analizza i cambiamenti nella classificazione diagnostica dei disturbi sessuali nel passaggio dal DSM IV-TR al DSM 5. Sottolinea, oltre all’inquadramento nosografico, l’importanza di cogliere l’aspetto relazionale di tali disturbi e propone la lettura fenomenologica e relazionale della psicoterapia della Gestalt.

L’American Psychiatric Association (APA) ha pubblicato nel 2013 l’ultima edizione del Manuale Statistico Diagnostico dei Disordini Mentali (DSM 5). A differenza della precedente edizione, nel DSM 5 i disturbi sessuali non sono più inclusi in un’unica categoria diagnostica, ma vengono distinti in: Disforie di Genere, Parafilie e Disfunzioni Sessuali.(…)

Le disfunzioni sessuali

Quando un problema sessuale diventa una disfunzione o un disturbo?
Qual è il confine tra normale e patologico?
Alcune condizioni, come la disfunzione erettile, possono essere considerate una variazione della normale risposta sessuale, una alterazione transitoria del normale funzionamento, effetto di patologie mediche sistemiche, o possono emergere come conseguenza di un problema relazionale o in risposta a comportamenti del partner. Da qui la necessità nel DSM 5 di utilizzare definizioni più precise, sia in termini temporali che sul meccanismo di funzionamento coinvolto, atte a differenziare un disturbo sessuale da una condizione transitoria (Sungur, Gündüz, 2014).

Il rapporto con il ciclo della risposta sessuale, che ha determinato nelle precedente edizione del manuale la suddivisione delle disfunzioni in tre aree disfunzionali (area del desiderio, dell’eccitazione e dell’orgasmo), si è fortemente indebolito (Sungur, Gündüz, 2014). Al contrario, la recente letteratura ha dimostrato che la risposta sessuale non è un processo lineare ed uniforme, e la distinzione dei disturbi in funzione delle fasi (ad esempio desiderio ed eccitazione) può essere artificiosa.

Altro importante aspetto è che fino al DSM 5 la risposta sessuale nei differenti generi veniva considerata analoga, mentre sempre più la letteratura scientifica attuale concorda sul fatto che l’interesse sessuale, la motivazione, l’arousal ed il piacere posso essere esperiti differentemente nei due generi (Sungur, Gündüz, 2014). Per ciò che concerne le disfunzioni del sesso femminile queste sono state unificate nel disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile. Il vaginismo e la dispareunia sono stati conglobati nel disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (Goldstein et al., 2005). È stato aggiunto un nuovo disturbo relativo all’eiaculazione ritardata, in cui il soggetto sperimenta un marcato ritardo o assenza d’eiaculazione, non intenzionali o desiderati, in quasi tutte le occasioni di attività sessuale con un partner. Bisogna, come già detto in precedenza, prestare attenzione alla diagnosi differenziale con altre condizioni mediche (neuropatie periferiche, patologie della prostata, ecc.) o a disturbo simile ma indotto da sostanze. Vengono mantenuti il disturbo erettile, il disturbo dell’orgasmo femminile, il disturbo del desiderio ipoattivo maschile, l’eiaculazione precoce.

Il disturbo da avversione sessuale è stato abolito dalle categorie principali e spostato in “altre disfunzioni sessuali specifiche” (Borg et al., 2014).

Per aumentare l’accuratezza diagnostica e ridurre le sovrastime legate a problemi sessuali transitori, le disfunzioni devono avere una durata minima di sei mesi, ad eccezione di quelle secondarie all’uso di sostanze. Ancora una volta però la raccomandazione è quella di considerare i sintomi sessuali come disturbi psichici solo dopo aver escluso ogni componente organica. La collaborazione tra specialisti diventa quindi ulteriormente valorizzata.

Inoltre, mentre nel DSM IV-TR la definizione al criterio B di distress nelle disfunzioni sessuali era quella di “marcato distress e difficoltà interpersonali”; il DSM 5 ha riformulato marcato distress come “distress clinicamente significativo nell’individuo” ed ha cancellato nel criterio C la dimensione “difficoltà interpersonali”. Nonostante, nella maggior parte dei casi, l’attività sessuale coinvolge almeno due partner, molti clinici sottolineano che un distress sessuale debba considerarsi un disturbo sia quando causa un disagio personale sia quando causa difficoltà interpersonali. (Sungur, Gündüz, 2014).

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-1, I vissuti sessuali in psicoterapia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 74.

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empatia

Empatia incarnata tra psicoterapia della Gestalt e neuroscienze

– Valeria Rubino.

In accordo con il nuovo trend culturale che sancisce nell’uomo il primato della dimensione relazionale, l’articolo si propone di approfondire alcune riflessioni teoriche sul concetto di empatia sia in seno alla psicoterapia della Gestalt che in ambito neuroscientifico. Obiettivo del presente lavoro è individuare spunti di condivisione tra i risultati ottenuti dall’Infant Research, le neuroscienze ed alcuni elementi teorici ed epistemologici della psicoterapia della Gestalt.

(…)

Empatia e neuroscienze

Molti degli spunti teorici ed epistemologici caratteristici della psicoterapia della Gestalt, dalla tradizionale teoria del contatto al nuovo modo di concepire l’empatia, trovano un concreto riscontro nelle ultime e straordinarie scoperte raggiunte in ambito neuroscientifico. Nell’ultimo decennio, infatti, si sono compiuti ragguardevoli progressi nell’individuare i substrati neurali alla base dell’intersoggettività e dell’empatia.

 I neuroni specchio

Alcune importanti ricerche, compiute in ambito neurobiologico, hanno rivelato la presenza nel cervello di un gruppo particolare di neuroni, chiamati “neuroni specchio”, la cui caratteristica sarebbe quella di eccitarsi sia quando un soggetto compie una determinata azione, sia quando è un altro a compierla innanzi ai suoi occhi (Rizzolatti, 2006). Secondo alcuni scienziati, questa scoperta potrebbe spiegare il fenomeno dell’empatia rivelandone una presunta base biologica.

Le strutture neuronali coinvolte, infatti, quando noi proviamo determinate sensazioni ed emozioni sembrano essere le stesse che si attivano quando attribuiamo a qualcun altro quelle “stesse” sensazioni ed emozioni. La scoperta dei neuroni specchio è da attribuirsi ad un gruppo di ricercatori italiani che, attraverso studi elettrofisiologici condotti sul cervello del macaco, hanno individuato una classe di neuroni, situati nella porzione ventrale dell’area F5 della corteccia premotoria, e nella regione posteriore del lobo parietale (Gallese et al., 1996, 2002; Fogassi et al., 2005).

La peculiarità di questo gruppo di neuroni riguarda il loro attivarsi non solo quando la scimmia esegue azioni motorie finalizzate al raggiungimento di uno specifico scopo, ma anche quando altre scimmie eseguono azioni simili. Studi successivi hanno dimostrato che, oltre ad una funzione strettamente motoria, una particolare classe di neuroni specchio possiede anche funzioni audiovisive, attivandosi non solo durante l’esecuzione e l’osservazione delle azioni, ma anche di fronte al suono da esse prodotto.

Le straordinarie potenzialità di tali scoperte hanno indotto i neuroscenziati a ricercare anche nell’uomo l’esistenza di un sistema di neuroni specchio, ed i risultati di molteplici studi neurofisiologici e di neuroimaging funzionale, convergono nell’aver individuato anche nell’uomo un sistema mirror localizzato in regioni parieto-premotorie, verosimilmente omologhe a quelle descritte nella scimmia (Rizzolatti, Fogassi, Gallese, 2001; Gallese, Keysers, Rizzolatti, 2004).

La mole di informazioni che nel corso degli anni si sono accumulate sui neuroni specchio, hanno permesso di considerare questo meccanismo non come un semplice sistema finalizzato all’imitazione, ma come la base neurale di una forma diretta di comprensione dell’azione altrui.

Quanto fin qui esposto ci permette di postulare l’esistenza di un substrato neurale preposto a comprendere le azioni compiute dall’altro, una base neurofisiologica della comprensione empatica.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011-2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 26.

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trauma

Crescite difficili. La Gestalt incontra il trauma

– Anna Fabbrini.

L’articolo affronta il tema del trauma relazionale. Prende in esame la relazione di cura basata sul potere e i suoi effetti distruttivi sulla crescita cognitiva ed emotiva della persona, privata del riconoscimento identitario. Gli strumenti della psicoterapia della Gestalt si sono rivelati efficaci per generare nuove matrici di dipendenza fiduciosa in grado di riparare il danno.

Introduco con le parole di una mia paziente che mi hanno ispirato il titolo:

Quando qualcuno mi chiede …
dico che ho avuto una vita difficile … Tanto per dire qualcosa.
Nessuno potrebbe comprendere
il terrore in cui sono cresciuta …

Ho scelto di parlare delle crescite difficili per portare una testimonianza del mio lavoro clinico di questi anni con persone che hanno subìto dei traumi in età infantile. Nel condividere queste mie riflessioni, mi propongo anche di fare qualche collegamento tra la teoria evolutiva di riferimento e la pratica clinica gestaltica. E questa è anche un’occasione per meditare su uno dei mali del nostro tempo, non certo nuovo, un male antico che oggi prende grande visibilità. Mi riferisco alla violenza morale e fisica verso i piccoli che è molto più presente di quello che pensiamo e che sentiamo così sconcertante quando arriva a diventare fatto di cronaca. Sullo sfondo, meditiamo anche su un altro male del nostro tempo: la pressione sociale alla felicità e la rimozione del dolore.

E dedico questo intervento a tutte quelle persone che sono stati bambini cresciuti nella solitudine e nel terrore.

Il trauma

Un trauma – dice Winnicott (1996) – «è una frattura nella continuità dell’esistenza dell’individuo (…) ed è solo grazie al senso di continuità dell’esistenza che può realizzarsi, nella persona, il senso di sé, del sentirsi reali e dell’esistere» (p. 13). Questa frattura d’esistenza può essere causata da un evento puntuale, come un incidente o una perdita improvvisa e produce, in questo caso, quel complesso sintomatico conosciuto come Sindrome da Stress Post Traumatico (DPTS).

In questa sede, però, farò riferimento a un altro tipo di trauma, quello che deriva dalla inadeguatezza del sistema delle cure primarie, quando cioè l’ambiente familiare è privo dei requisiti idonei all’accoglimento e alla protezione dei figli, al loro accudimento e alla trasmissione del sapere relazionale e culturale. In questo caso parliamo di crescita traumatica o Disturbo Post Traumatico da Stress Complesso (DPTSc) che è di natura relazionale.

A questo punto della stesura del mio testo, cercavo qualche esempio per darvi un’idea del tipo di problemi di cui parlo e mi sono venuti in mente volti e storie di adulti che ho incontrato.

Ho pensato a Maria, nata non voluta da una madre intellettuale che si sentiva rovinata dalla maternità, che per tutta la vita ha rimpianto una carriera fallita causata – a suo dire – dalla presenza dei figli. Affidata alla nonna fino all’età di quattro anni, per tutta la sua vita si è sentita ripetere: «Io i figli non li volevo… era meglio se non nascevi».

Ho pensato a Lucia, anch’essa allontanata da casa, figlia di una coppia simbiotica che la sentiva minaccia dell’intimità coniugale. Come conforto alle sue incertezze adolescenziali riceveva dalla madre frasi come: «Bisogna che tu accetti la verità… sei brutta. Non potrai piacere mai a nessuno… nessuno ti vorrà».

Ho pensato a Renata, abusata dal padre che le diceva col fiato sul collo: «Questo non è mai successo. Se lo dici ti ammazzo»… mentre nella stanza a fianco la mamma – maniaca dell’ordine e della pulizia – passa l’aspirapolvere per non sentire il rumore… (…)

E ho pensato ad altri ancora. Storie diverse, ma con un aspetto in comune: l’uso malvagio e perverso del potere dell’adulto sul bambino. Per affrontare un tema di questa complessità ci sono tante direzioni possibili. Io ho scelto di seguire il filo di una riflessione concentrandomi sulla deviazione della naturale disparità tra genitore e figlio quando, invece di esprimersi come cura, prende la direzione dell’assoggettamento, della manipolazione.

(…)

L’articolo approfondisce i seguenti temi:

  • la crescita sana
  • la crescita traumatica
  • limen
  • linee dell’azione terapeutica

 

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 81

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afferrare l'altro

Afferrare l’altro. Intervista a Vittorio Gallese

– Pietro A. Cavaleri

Vedere l’altro è attivare la via visiva, ma guardare vuol dire “afferrare l’altro”, mettersi in un rapporto di apertura nei confronti dell’altro. Vediamo non solo con la vista, ma anche con il tatto, con l’udito, con l’azione. L’isomorfismo non è la riproduzione di una struttura, ma è “l’afferramento” di un corpo che si emoziona. L’emozione si è evoluta come uno strumento di negoziazione interpersonale. Emozionarsi non è solo sentirsi, ma sentire nell’esprimersi. Occorre guardare all’uomo partendo non dal cervello, ma dalla persona. L’identità è un processo di co-costruzione in cui l’altro gioca un ruolo fondamentale. Se l’altro manca, sono mutilate le potenzialità di individuazione di ognuno.

Pietro A. Cavaleri. Ti porrò delle domande a partire dal lavoro che abbiamo visto fare a Margherita, per arrivare poi al tuo ambito più specifico. La prima domanda prende spunto dal fatto che l’interazione tra terapeuta e paziente, così come si è svolta, è stata incentrata sull’esperienza percettiva: “guardami, mi vedi?” “come senti il tuo corpo?”. Forse non è un caso che la psicoterapia della Gestalt abbia nella psicologia della Gestalt una delle sue radici più importanti. A questo proposito, vorrei chiederti: cosa ne pensi dell’articolo di Eagle e Wakefield, che sottolinea la connessione tra isomorfismo e simulazione incarnata, facendo riferimento diretto ai tuoi lavori?

Vittorio Gallese. Prendo spunto dalla seduta. Bisognerebbe introdurre subito una distinzione tra vedere e guardare. Vedere significa, certo, attivare le vie visive nel nostro cervello, ma guardare è qualcosa di diverso. Guardare vuol dire “afferrare l’altro”, volerlo “afferrare”. Ammesso, e non concesso, che il vedere possa essere considerato come la funzione tipica ed esclusiva del sistema visivo, in realtà credo che non lo sia. Si dà per scontato che si sente con il tatto, si vede con la vista e si ascolta con l’udito. Già oggi noi siamo in grado di dire che questa è un’affermazione del tutto parziale, è incompleta.

In realtà vediamo e sentiamo con la vista, con il tatto, con l’udito e con l’azione. Il vedere non è solo un impressionare la retina dalla luce riflessa dall’oggetto che abbiamo di fronte. Non è solo questo, ma è un mettersi in un rapporto di apertura nei confronti dell’altro e quindi c’è sempre questa componente in qualche modo di “afferramento” nello sguardo che vuole guardare l’altro. Significa mettere in campo le mie emozioni che sono in qualche modo attivate dalla visione, che vuole in qualche modo “afferrare” e di cui io sono parte attiva. Questo non significa che io decida “a tavolino”: adesso ti guardo, invece di vederti soltanto; ma dipende da come io sto nella relazione. Nella seduta abbiamo visto come in vari momenti questo vedere era solo un vedere e in certi momenti diventava anche un guardare, che era quello che tu in qualche modo cercavi (riferendosi a Margherita).

Talvolta, invece, quando guardiamo l’altro, possiamo cercare nell’altro un riflesso di noi, per rispondere a degli interrogativi in cui l’altro è in qualche modo rilevante, se lo è, solo nella misura in cui ci dà un riflesso che ci aiuta o a sentirci meglio, o a riporre sicurezza, o a darci un senso ulteriore di autoaffermazione. Rimanendo su un piano puramente neurofisiologico, vedere è qualcosa di molto complesso, molto più complesso della mera attivazione delle cosiddette “aree visive” nel nostro cervello. Se parliamo di estetica, l’estetica non si risolve studiando il cosiddetto cervello visivo, ma deve “vedere” molto di più, che è un po’quello che cerchiamo, che studiamo nella visione: il motorio, il cuore, il tatto. Il senso del tatto, cioè osservare il contatto esperito dall’altro, non è semplicemente l’impressione della retina e via via l’attivazione del mio sistema visivo, perché qualcuno ci ha detto che ci sono delle aree nel nostro cervello che rispondono ai volti e altre che rispondono alle case o ai ponti.

Il problema per me è capire perché ci sono delle aree che rispondono ai volti, che cosa le fa rispondere ai volti e non ai ponti? Non lo sappiamo, la cosa grave è che a molti sembra non interessare rispondere a questa domanda. Finché non riusciamo a rispondere a queste domande, le neuroscienze diventano un po’ un’esibizione dei muscoli tecnologici che però secondo me, non ci fanno fare grandi passi avanti. Per fare passi avanti bisogna partire dalla “dimensione personale”. In fondo se si parla di simulazione incarnata è proprio per questo: voglio incarnare la visione, voglio incarnare il senso del tatto nella dimensione in cui si capiscono. Si possono capire solo se li incastoniamo in questa dimensione, mentre invece tra molti colleghi c’è una grandissima vocazione frenologica, tesa a trovare nel cervello una casa ai cosiddetti “moduli cognitivi”. Infatti, non è un caso che il libro di Fodor, La modularità della mente, abbia avuto un’influenza enorme nel condizionare poi le scienze cognitive.

Pietro A. Cavaleri: Come dire che non basta soltanto l’esperienza percettiva, ma occorre l’esperienza percettiva col significato che la mente le dà?

Vittorio Gallese: Sì, però il significato della mente in questo caso è a monte del linguaggio, anzi il linguaggio è una spia di qualche cosa che lo suscita.

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011-2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 26

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Dalla solitudine alla condivisione della sofferenza nel mondo del lavoro

-E. Conte, M. Mione e P. Fontana.

Le Autrici presentano l’esperienza di un gruppo di auto-aiuto sul tema della solitudine e della condivisione nel mondo del lavoro, nato in un’azienda, tramite un’intervista ad una lavoratrice dell’azienda stessa. Dopo una introduzione che evidenzia l’importanza socio-politica dell’essere gruppo e la presentazione dell’intervista vengono proposte delle riflessioni conclusive nelle quali viene riletta l’esperienza della solitudine secondo l’ottica della psicoterapia della Gestalt, sottolineando l’importanza del gruppo di auto-aiuto come laboratorio di costruzione di ground e di competenze relazionali “rivoluzionarie” per la società attuale.

La psicologia e la psicoterapia partecipano a pieno titolo alla costruzione di un pensiero e di una prassi in rapporto alla “pòlis”, alla costruzione della comunità e della cittadinanza. La psicoterapia della Gestalt, in particolare, è da sempre interessata ad offrire il suo contributo alle modalità del convivere nella pòlis (Goodman, 1967; Polster, 2006; Francesetti 2011), alla qualità di quell’incessante scambio relazionale che avviene tra l’organismo umano e il suo ambiente, tra gli individui e le loro comunità, tra il cittadino e la pòlis.

La psicoterapia della Gestalt si impegna a favore della qualità delle relazioni e, nel fare questo, promuove lo sviluppo di quelle capacità critiche e di condivisione che costituiscono i presupposti necessari per la creazione di un tessuto sociale, per un senso di identità collettiva, in cui le singole soggettività abitino a pieno diritto. Tutto ciò si riassume nel concetto gestaltico di adattamento creativo alla solitudine, che esprime la possibilità di integrazione tra «la creatività, che esprime l’unicità, e l’adattamento che esprime la reciprocità (…), tra la necessità di adeguarsi alle esigenze della società e il bisogno di sviluppo differenziato e creativo che è insito in ogni individuo» (Spagnuolo Lobb, Salonia e Sichera, 2001, p. 186).

Coniugare l’esperienza dell’individualità con quella della socialità favorisce la produzione e la trasformazione di senso, e quindi la creazione di nuovi mondi possibili, di nuovi modelli di vita (Mione, Conte, 2004). L’essere gruppo è uno spazio-tempo particolarmente significativo nel quale questo processo può attuarsi, spazio-tempo all’interno del quale è possibile radicarsi in nuove appartenenze, aprirsi alla creatività, alla diversità, alla conflittualità, costruire narrazioni che si traducano in sistemi di rappresentazione comune. Per questi motivi, l’essere gruppo in qualsiasi ambito (sociale, ricreativo, terapeutico, ecc.) appare oggi una cerniera preziosa tra l’individuo e il macro sistema, un “ganglio” che connette il tessuto vivo della società attuale, tessuto che è sottoposto a continue lacerazioni e dal quale i più “svantaggiati” rischiano di essere espulsi.

L’esperienza che raccontiamo in questo articolo testimonia quanto appena affermato. Essa è stata presentata nella terza edizione del festival dei Matti di Venezia, nel 2011, da  Paola Fontana (protagonista della nostra intervista) e Tiziana Crostelli (impiegata, assieme a Fontana, dell’azienda Agile – ex-Eutelia – di Pregnana Milanese), da Corrado Mandreoli (responsabile delle politiche sociali della Camera del Lavoro di Milano) e da Massimo Cirri (psicologo presso la Camera del Lavoro di Milano e conduttore del programma radiofonico “Caterpillar”). Ci sembra che la loro esperienza di formazione di un gruppo di auto-aiuto in azienda meriti di essere raccontata, per la qualità innovativa che caratterizza il modo con cui si sono occupati di relazioni nel mondo aziendale, dando sostegno al singolo lavoratore e soprattutto contribuendo a creare un nuovo concetto di lavoro e di comunità.

Maria Mione ed Elisabetta Conte intervistano Paola Fontana

Puoi descrivere in breve quale è stata l’evoluzione di questa esperienza, ricostruendone la storia, dall’occupazione dell’azienda alla costituzione del gruppo di auto-aiuto?

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXV, 2012/1, La psicoterapia della Gestalt per i gruppi
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli,  pag. 12

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dialogica

Istituto di Gestalt HCC Italy per il sociale: mostra Dialogica – atemporali connessioni contemporanee

A Siracusa è iniziata la mostra di opere d’arte Dialogica che vede la partecipazione di 14 artisti da tutto il mondo. L’Istituto di Gestalt HCC Italy ha voluto sostenere l’organizzazione dell’iniziativa per l’alto valore culturale ed artistico, e per sostenere il dialogo sempre presente tra arte e psicoterapia della Gestalt.
La manifestazione vuole essere un omaggio alla vitale attualità delle opere d’arte antica ed insieme un dialogo con i maestri del passato. Opere pittoriche, progetti fotografici e video disegnano un percorso espositivo parallelo a quello della Galleria, con incursioni nel sociale e nella più vicina attualità. Gli artisti di Dialogica sono: Evita Andùiar, Romina Bassu, Giuseppe Bombaci, Davide Bramante, Riccardo Brugnone, Andrea Buglisi, Claudio Cavallaro, Simone Geraci, Francesco Lauretta, Ettore Pinelli, Giacomo Rizzo, Massimiliano Usai, Giovanni Viola, William Marc Zanghi.
La mostra sarà visitabile negli orari di apertura del Museo Galleria regionale di Palazzo Bellomo, Ortigia, Siracusa (mappa google)
In occasione della chiusura di sabato 2 Dicembre 2017, Massimiliano Usai e Roberto Vitale si esibiranno in un live di musica e poesia nel cortile di Palazzo Bellomo.