comunicazione

Master Breve in comunicazione e competenze relazionali

“..Una bellissima esperienza di crescita e confronto!”
Si è concluso, a Milano, il Master Breve in Comunicazione e Competenze Relazionali.
La formazione offerta dal Master breve è uno strumento fondamentale per tutti coloro che, a diversi livelli, sono impegnati in contesti educativi, sanitari, sociali e aziendali.

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sviluppo

Lo sviluppo polifonico dei domini

Verso una prospettiva evolutiva della psicoterapia della Gestalt

-Margherita Spagnuolo Lobb.

Rispondendo alla domanda “quale prospettiva sullo sviluppo è coerente con i principi della psicoterapia della Gestalt e dunque utilizzabile a livello clinico dai gestaltisti?”, l’autrice afferma che ciò che serve al clinico non è tanto una teoria dello sviluppo in sé, ma una “mente evolutiva”, ossia una mappa per comprendere come il passato si rivela nel presente, che possa aiutarlo a intuire sia l’evoluzione delle modalità di contatto del paziente che il suo movimento interrotto, l’intenzionalità di contatto bloccata che chiede di essere liberata nel presente. Presenta dunque un modello per osservare come le risorse del paziente sono ancora disponibili nella relazione o sono dormienti.

La chiave concettuale di questo lavoro è lo sviluppo polifonico di domini, che l’autrice propone come una prospettiva epistemologicamente coerente di guardare, nel qui e ora della seduta, allo sviluppo del paziente, come una funzione del campo fenomenologico, allo scopo di sostenere l’eccitazione per il contatto che ha perduto la sua spontaneità, nel quadro di riferimento della domanda di terapia del paziente. Descrive i domini gestaltici, le loro caratteristiche e i rischi che implicano nel caso di un confine di contatto desensibilizzato.

Sebbene la psicoterapia della Gestalt sia nata proprio da un’idea innovativa rispetto alla teoria freudiana dello sviluppo (la ben nota fase dell’aggressione dentale, Perls, 1942), i suoi seguaci si sono tenuti distanti da una concettualizzazione dei processi evolutivi, almeno fino agli anni ’80, momento in cui tutte le correnti psicoterapeutiche si sono rivolte alla relazione e alla cura dei pazienti gravi. A quel punto, la critica all’approccio evolutivo sostenuta dagli psicoterapeuti della Gestalt – secondo cui guardare allo sviluppo del paziente era una distrazione dalla freschezza della relazione nel qui ed ora – fu sostituita dalla ricerca di una teoria evolutiva che fosse in linea con i principi epistemologici della psicoterapia della Gestalt.

In questo articolo intendo proporre una prospettiva gestaltica sullo sviluppo (più che una teoria evolutiva) che consenta al terapeuta di rimanere nella freschezza del contatto presente con il paziente, e di considerare nel proprio lavoro la profondità che emerge dalla “superficie” del loro incontro. Attingendo alle teorie evolutive contemporanee, descriverò il concetto di dominio come un ambito esperienziale che include alcune capacità di contatto. (…)

1. Un esempio di prospettiva gestaltica sullo sviluppo

Secondo la terapia della Gestalt, l’individuo contatta l’ambiente utilizzando le forme di sostegno fisiologico specifico di cui dispone. Queste sono parte della sua esperienza e sono necessarie per l’autoregolazione spontanea del suo essere-con. Ecco un esempio. Un bambino vomita la mattina quando deve andare a scuola; i genitori, già stressati perché faranno tardi al lavoro, lo rimproverano; il bambino si sente umiliato. Nella sua esperienza, vomitare rappresenta un sostegno fisiologico che gli consente di scaricare una tensione. Se si sente accettato dai genitori, con la sua angoscia e la sua confusione emotiva, sarà in grado di attingere al sostegno fisiologico che ne deriva. Tornerò nel corso dell’articolo a questo esempio.

L’attenzione al corpo che caratterizza il metodo gestaltico segna un passaggio importante per tutta la psicoterapia: da un concetto di profondità riferito a localizzazioni psichiche, ad una profondità intesa come incarnazione della relazione (Spagnuolo Lobb, 2005). Se per Reich il corpo era il luogo della repressione dei conflitti, e per Perls il mezzo privilegiato di espressione di un’esperienza olistica ed esistenziale, per gli autori gestaltici contemporanei (in particolare Kepner, 1993; Frank, 2001; Clemmens et al., 2008; Clemmens, 2011) il corpo è l’organo di contatto per eccellenza, che comprende tanto la memoria dei contatti passati, quanto la creazione di quelli presenti. Il linguaggio gestaltico dell’esperienza di contatto riformula la prospettiva psicodinamica nel codice fenomenologico dell’esperienza nel qui ed ora.

(…)

L’articolo tratta i seguenti temi:

2. La questione della teoria evolutiva in psicoterapia della Gestalt

3. La presenza concreta del paziente tra figura e sfondo

4. Le mappa gestaltica dello sviluppo polifonico dei domini in un campo

5. L’organizzazione gestaltica dello sviluppo polifonico dei domini

6. La prospettiva evolutiva della psicoterapia della Gestalt nell’evi- denza clinica

7. Un ricordo personale

Tratto da Quaderni di Gestalt, vol. XXII, 2009-2, Psicoterapia della Gestalt e psicoanalisi
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli

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essere

Essere-con” nel mondo di oggi.

Dialogo sulla cultura della relazione

Pietro Andrea Cavaleri e Giancarlo Pintus.

I due psicologi dialogano sulla relazione umana nell’attuale contesto sociale e culturale, sviluppando una lettura in chiave fenomenologica dei cambiamenti epocali nelle relazioni di coppia, familiari, nei gruppi e nella polis. Sulla scorta della metafora post-moderna della relazione come di “una zattera senza timone”, i due autori si confrontano sulle opportunità offerte dal superamento del primato della società sull’individuo, ma anche sulle nuove paure e i nuovi quadri psicopatologici correlati a un’individualità sempre più sganciata dallo sfondo del proprio ground di sicurezze. La relazione si configura allora come uno spazio sacro all’interno del quale nasce la mente, evento relazionale e di confine, ed emerge il bisogno di una nuova alfabetizzazione relazionale.

(…)

Giancarlo Pintus: C’è nell’uomo contemporaneo una costante tensione verso la ricerca della felicità. Mi colpiva il paradosso provocatorio del titolo di un libro Il dovere della felicità (Carrera – La Porta, 2000). Citando economisti come Luigino Bruni (Bruni, 2004; Bruni, Porta, 2004; Bruni, Zamagni, 2004) poni una questione nuova, cioè la felicità non come una condizione dettata dal possesso e dal consumo di beni, ma dall’aver accesso e fruire del bene relazionale. Pensare alla felicità come a un bene relazionale è scardinante rispetto a un ventennio di cultura e di educazione centrate invece sulla ricerca del successo a tutti i costi; in cosa consiste questa nuova idea?

Pietro A. Cavaleri: Viviamo una cultura post-moderna in cui ci culliamo del fatto che tutti possono avere tutto, tutti possono essere ricchi, tutti si possono realizzare, ma presto scopriamo che questo non è vero, perché la crisi, le ingiustizie sociali svelano l’inganno. Per alcuni studiosi questo “inganno” è all’origine della sofferenza mentale oggi più diffusa: la depressione (Erhenberg, 1999). Scopriamo, infatti, che per un verso ci viene data la certezza di poterci realizzare al meglio, ma per un altro, in modo molto ambiguo, questo dovere della felicità ricade interamente solo sulle nostre spalle. Se falliamo la responsabilità non è del mondo, ma interamente nostra. La depressione dell’uomo di oggi è dovuta a questo surplus di responsabilità: ognuno di noi è lasciato solo davanti ai propri fallimenti.

Per diventare qualcuno c’è sempre bisogno degli altri e non solo del proprio genio; purtroppo in un mondo assetato del sostegno dell’altro, ma privo di esso, perché la relazione è negata, essere felici è un dovere il cui fallimento è interamente responsabilità del singolo. Gli stessi economisti, andando contro il senso comune, hanno scoperto che non sono solo i soldi a fare felice l’uomo. Kahneman (2003), psicologo cognitivista che si occupa di dinamiche psicologiche applicate al mercato e Nobel per l’economia, ha scoperto, ad esempio, che il mercato viene retto da fattori di tipo emotivo e non solo da variabili a carattere matematico-probabilistico: le persone non sono felici se posseggono di più. Insomma, viviamo in una sorta di “implicito collettivo” che ci fa dire ai nostri figli di studiare e di impegnarsi nella vita per fare carriera così da assicurarsi la felicità.

Molti studi (Seligman, 2003; 2004) dimostrano invece che, superato un certo livello di benessere materiale, la persona comincia a desiderare una situazione ancora migliore nella quale però il benessere economico appaga limitatamente. Il benessere non sarebbe dunque frutto di un’equazione economica tout-court, ma anche espressione di beni immateriali come la qualità delle relazioni, del clima sociale che fa da sfondo al nostro quotidiano. Tutto questo non ha prezzo, e ha invece un rilievo economico fondamentale a livello produttivo e ancor più nella nostra vita personale e di relazione. La felicità è data da un buon tenore di vita, ma c’è qualcosa di “ulteriore”: la felicità è figlia di altro e specialmente della relazione “con” l’altro (Spagnuolo Lobb, 2008).

Giancarlo Pintus: Usi spesso termini come “riconoscersi” ed “essere riconosciuti”, quasi una funzione essenziale per uno sviluppo psico-fisico sano della persona e delle relazioni. È possibile fondare su queste abilità relazionali una nuova cultura della sanità, del benessere personale e collettivo?

(…)

Tratto da Quaderni di Gestalt, vol. XXIII, 2010-1, Psicoterapia della Gestalt e fenomenologia
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli

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Vieni a conoscere i CORSI ON LINE dell’Istituto di Gestalt HCC Italy 

psciopatologia

Co-creare una psicopatologia gestaltica

– Giuseppe Sampognaro

L’autore rivolge ai docenti internazionali dei corsi di psicopatologia gestaltica dell’Istituto di Gestalt HCC Italy alcune domande, allo scopo di rivisitare e definire il concetto di psicopatologia nel nostro modello. Le loro risposte convergono sul valore intrinseco della diagnosi estetica e sul concetto di campo relazionale sofferente. Allo stesso modo, sottolineano l’importanza della svolta teorica dello “sviluppo polifonico dei domini” come chiave di lettura diagnostica e traccia terapeutica da seguire nel contatto col paziente. A conclusione, un commento del fenomenologo Gilberto Di Petta e il suo auspicio di una psicopatologia sempre più aderente all’atteggiamento fenomenologico oscillante tra oggettivo e intersoggettivo.

Da tempo la psicoterapia della Gestalt sembra essersi “riconciliata” con il concetto di psicopatologia. Dopo l’iniziale periodo di insofferenza e il tentativo di rifiutare la dipendenza da ogni inquadramento nosologico anche la psicoterapia della Gestalt ha accolto la necessità di “leggere” la patologia e di individuarne la forma e l’origine. Sappiamo infatti che, negli anni, la diffusione del nostro modello anche all’interno delle istituzioni pubbliche relative alla salute mentale ha determinato la necessità di dialogare sia con psichiatri (legati a un’impostazione medica) sia con colleghi di altre Scuole, formati a una mentalità nosografica tradizionale.

L’Istituto di Gestalt HCC Italy è stato dagli anni ’80 ed è tutt’ora leader internazionale in questo processo di integrazione della psicopatologia e della clinica contemporanea nella prassi e nella teoria del nostro approccio. Organizza dal 2012 l’International Training in Psychopathology and Contemporary Disturbances, rivolto a psicoterapeuti della Gestalt di tutta Europa, Russia e Paesi dell’Est. Il riscontro positivo di questa formazione è tale da creare un vero e proprio movimento nella comunità gestaltica internazionale. Abbiamo intervistato i quattro docenti di questo Training, Margherita Spagnuolo Lobb, Gianni Francesetti, Carmen Vázquez Bandín, Jean-Marie Robine. Dalla loro voce possiamo intuire i concetti fondamentali su cui si basa questo modello psicodiagnostico gestaltico.

Abbiamo poi chiesto a Gilberto Di Petta, psichiatra fenomenologo, Vice presidente della Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica e Socio fondatore della Società Italiana di Fenomenologia Clinica e di Psicoterapia, di commentare tali risposte, al fine di mantenere il modello dell’Istituto in dialogo con la corrente della psichiatria fenomenologica e con la sua tradizionale pro- spettiva sulla sofferenza della relazione.

Margherita Spagnuolo Lobb
Parlare di psicopatologia, e ancor più di diagnosi, è stato certamente un grande passaggio per il nostro approccio che, come tutti gli approcci umanistici, rifiutava, fino agli anni ’80, di occuparsi delle psicosi e dei disturbi gravi. Ricordo un seminario di scambio tra il nostro Istituto e il New York Institute for Gestalt Therapy (l’Istituto in cui la psicoterapia della Gestalt è stata fondata, quello che più di tutti dà valore alla ricerca e allo sviluppo teorico), in cui parlammo di psicopatologia e di sviluppo infantile, suscitando curiosità e conflitti.

La fedeltà al qui e ora era diventata negli anni un ostacolo a parlare di tutto ciò che potesse portare fuori dalla freschezza del momento. Il passaggio alla considerazione del mondo della patologia si rese necessario dopo gli anni ’80, quando i disturbi gravi aumentarono e ci fu bisogno di capire come la percezione psicotica sia diversa da quella nevrotica, insomma di avere strumenti per fare una diagnosi differenziale. Le tecniche gestaltiche, come per esempio chiedere di amplificare un sintomo, risultavano rischiose in alcuni casi (fino a provocare un esordio psicotico) e utili in altri (tanto da fare sentire le persone libere di essere se stesse). La psicoterapia della Gestalt era nata per sostenere le risorse, per apprezzare la bellezza. Il rifiuto di Perls stesso a trattare pazienti gravi, quando era a Esalen, rispecchiava l’interesse della società e della psicoterapia di sostenere la potenzialità umana celata da una società massificante, impositiva, cieca alla creatività individuale.

I cambiamenti sociali degli anni ’80 avevano dunque registrato un aumento dei disturbi gravi. Il bisogno di liberare il potenziale umano creativo e autonomo lasciava il posto ad un bisogno di definirsi. Lo sfondo relazionale sicuro, fatto di ruoli chiari e certezze affettive, lasciava il posto a “intermittenze” relazionali che generavano il senso di inaffidabilità dell’altro, e ad una ricerca di sé attraverso provocazioni (penso ai disturbi alimentari, alle tossicodipendenze, per esempio). Occorreva tradurre i principi gestaltici, nati in una società più solida, nel linguaggio di queste nuove sofferenze. Non ci si poteva più esimere dal trattare i pazienti gravi.


Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 9

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empatia

Empatia incarnata tra psicoterapia della Gestalt e neuroscienze

– Valeria Rubino.

In accordo con il nuovo trend culturale che sancisce nell’uomo il primato della dimensione relazionale, l’articolo si propone di approfondire alcune riflessioni teoriche sul concetto di empatia sia in seno alla psicoterapia della Gestalt che in ambito neuroscientifico. Obiettivo del presente lavoro è individuare spunti di condivisione tra i risultati ottenuti dall’Infant Research, le neuroscienze ed alcuni elementi teorici ed epistemologici della psicoterapia della Gestalt.

(…)

Empatia e neuroscienze

Molti degli spunti teorici ed epistemologici caratteristici della psicoterapia della Gestalt, dalla tradizionale teoria del contatto al nuovo modo di concepire l’empatia, trovano un concreto riscontro nelle ultime e straordinarie scoperte raggiunte in ambito neuroscientifico. Nell’ultimo decennio, infatti, si sono compiuti ragguardevoli progressi nell’individuare i substrati neurali alla base dell’intersoggettività e dell’empatia.

 I neuroni specchio

Alcune importanti ricerche, compiute in ambito neurobiologico, hanno rivelato la presenza nel cervello di un gruppo particolare di neuroni, chiamati “neuroni specchio”, la cui caratteristica sarebbe quella di eccitarsi sia quando un soggetto compie una determinata azione, sia quando è un altro a compierla innanzi ai suoi occhi (Rizzolatti, 2006). Secondo alcuni scienziati, questa scoperta potrebbe spiegare il fenomeno dell’empatia rivelandone una presunta base biologica.

Le strutture neuronali coinvolte, infatti, quando noi proviamo determinate sensazioni ed emozioni sembrano essere le stesse che si attivano quando attribuiamo a qualcun altro quelle “stesse” sensazioni ed emozioni. La scoperta dei neuroni specchio è da attribuirsi ad un gruppo di ricercatori italiani che, attraverso studi elettrofisiologici condotti sul cervello del macaco, hanno individuato una classe di neuroni, situati nella porzione ventrale dell’area F5 della corteccia premotoria, e nella regione posteriore del lobo parietale (Gallese et al., 1996, 2002; Fogassi et al., 2005).

La peculiarità di questo gruppo di neuroni riguarda il loro attivarsi non solo quando la scimmia esegue azioni motorie finalizzate al raggiungimento di uno specifico scopo, ma anche quando altre scimmie eseguono azioni simili. Studi successivi hanno dimostrato che, oltre ad una funzione strettamente motoria, una particolare classe di neuroni specchio possiede anche funzioni audiovisive, attivandosi non solo durante l’esecuzione e l’osservazione delle azioni, ma anche di fronte al suono da esse prodotto.

Le straordinarie potenzialità di tali scoperte hanno indotto i neuroscenziati a ricercare anche nell’uomo l’esistenza di un sistema di neuroni specchio, ed i risultati di molteplici studi neurofisiologici e di neuroimaging funzionale, convergono nell’aver individuato anche nell’uomo un sistema mirror localizzato in regioni parieto-premotorie, verosimilmente omologhe a quelle descritte nella scimmia (Rizzolatti, Fogassi, Gallese, 2001; Gallese, Keysers, Rizzolatti, 2004).

La mole di informazioni che nel corso degli anni si sono accumulate sui neuroni specchio, hanno permesso di considerare questo meccanismo non come un semplice sistema finalizzato all’imitazione, ma come la base neurale di una forma diretta di comprensione dell’azione altrui.

Quanto fin qui esposto ci permette di postulare l’esistenza di un substrato neurale preposto a comprendere le azioni compiute dall’altro, una base neurofisiologica della comprensione empatica.

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011-2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 26.

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La femminilità come emergere del sé al confine di contatto

– di Roberta La Rosa

Attraverso il racconto di due casi clinici, l’articolo presenta il lavoro terapeutico con le sofferenze in cui è impossibile avere un rapporto sessuale completo. Partendo dal principio che la sessualità è la trama di fondo del nostro desiderio di contattare l’altro, si è voluto evidenziare come, seguendo l’intenzionalità delle pazienti, la co-creazione tra terapeuta e paziente sia il luogo in cui è possibile sperimentare nuovi schemi relazionali. L’approccio gestaltico ha orientato il lavoro terapeutico con queste sofferenze focalizzando alcuni punti chiave come il radicamento nel corpo, i temi dell’energia e dei confini e il sostegno alla femminilità.

L’idea di scrivere sul tema della sessualità femminile è nata dalla psicoterapia di due donne arrivate nel mio studio con lo stesso sintomo: l’assenza di rapporti sessuali completi con il loro partner. La formazione in psicoterapia della Gestalt mi orienta a guardare la sessualità come desiderio di contattare l’altro, che si dispiega già a partire dal campo relazionale primario. È con questo sfondo che descriverò in breve la storia delle due donne, i temi e alcuni momenti salienti dell’intervento terapeutico.

Mara: 37 anni, primogenita di tre figli, è impiegata presso un’azienda. L’atmosfera nella famiglia d’origine è descritta come calda ma carica di tensione: racconta di conflitti con il padre, con la madre il rapporto è più sereno ma Mara si sente caricata delle sue ansie e guardata con gli occhi di chi vuole incoraggiarla senza la reale convinzione che lei possa farcela. La madre media i conflitti con il padre, chiedendole di essere comprensiva con lui. Ha un buon rapporto con il fratello, nato quando lei era adolescente e verso il quale si è sentita protettiva. Il rapporto con la sorella è stato caratterizzato dal confronto: per i genitori è quella meno critica, accomodante, da prendere ad esempio. L’energia di Mara è vissuta dai familiari come negativa perché porta le discussioni fino in fondo e vuole avere sempre ragione. Si sente la figlia non riuscita. È cattolica praticante e ha creduto nel valore della verginità, scegliendo di rinunciare a rapporti prematrimoniali. Si è sposata quindici anni fa, dopo un lungo fidanzamento, durante il quale lei e il compagno avevano cominciato ad avere un’intimità; Mara si sentiva coinvolta ed eccitata, e allo stesso tempo spaventata per quelle forti sensazioni in contrasto con i suoi valori religiosi.

Arriva in terapia perché, nonostante il desiderio, ha paura della penetrazione. Si squalifica per questo disagio stupido e incomprensibile ma, al contempo, drammaticamente incomunicabile. Nelle prime settimane di terapia il motivo della sua richiesta di aiuto, subito verbalizzato, rimane sullo sfondo. Solo dopo qualche mese, la questione della sessualità diventa la figura attorno cui ruota la sua sofferenza. Racconta del suo sentirsi in colpa per non riuscire ad avere rapporti con il marito, nonostante lui sia molto comprensivo: questo se da un lato la protegge dall’affrontare più seriamente il problema, dall’altro la fa sentire inetta ed incapace. Sul tema cominciano ad emergere anche le sue curiosità, i suoi non detti: “Avrei tante domande da fare alle donne che sento più grandi…vorrei essere rassicurata, vorrei chiedere cosa succede in quei momenti, se sentirò dolore e se riuscirò a sopportarlo…”.

Come scrive Amendt Lyon (2013), la dinamica figura/sfondo e il legame che la sessualità ha con il tema della vergogna permettono talvolta che le questioni sessuali retrocedano sullo sfondo, consentendo che argomenti meno minacciosi stiano in figura. Ciò in senso diacronico ha la funzione di sostenere la relazione terapeutica, e di costruire un ground di fiducia che consente al paziente di lasciarsi andare a confessioni più intime. Dalle sensazioni che provo stando di fronte a lei, ho il senso di un corpo vissuto come “sempre in allerta”, di un corpo sospeso. Mara riporta che in famiglia c’è spesso il senso di un qualcosa da cui ci si deve proteggere: un’improvvisa crisi economica, gli estranei, il mondo fuori casa pericoloso. È come se ciò si traducesse in iper-attenzione e in un allenamento costante ai segnali che arrivano dall’esterno: il nemico potrebbe arrivare, occorre prepararsi, il respiro si fa esile per aumentare la vigilanza e limitare la possibilità di essere distratti. Quando il corpo così desensibilizzato avverte sensazioni eccitanti o emozioni intense, ci si sente disorientati e impauriti, poiché queste non possono essere riconosciute come proprie.

Alcuni pazienti percepiscono l’ambiente come una forza che è pronta ad assalirli, mancando della capacità di sentirsi parte di un più vasto ambiente circostante. Nel percepire un’eccitazione sessuale, ad esempio, la vivono come il nemico che arriva da fuori: il corpo non può riconoscerla come propria, né contenerla. La poca confidenza che Mara ha con il corpo si traduce in curiosità e paura: «Ho una paura terribile delle mie parti intime, mi sembrano così delicate che ho il timore di potermi fare male anche quando mi lavo».

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVI, 2013/1, L’emergere dell’esperienza somatica nel campo fenomenologico
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 91

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La Relazione secondo la PdG

Noi, l’altro e l’ambiente. Gli psicoterapeuti rispondono..
La psicoterapia della Gestalt (PdG) studia il qui e ora della relazione, definito come l’accadere, il rivelarsi dell’esperienza co-creata da organismo-e-ambiente-in-contatto. In PdG la relazione è definita come l’evolversi dei contatti tra un dato “organismo-animale-umano” e una parte del suo ambiente (umano o non umano).
Il termine “contatto” implica l’interesse per l’esperienza generata dalla concretezza dei sensi, e dunque per i valori estetici e processuali della relazione. Il confine di contatto è il luogo in cui si dispiega il sé e la fenomenologia dell’incontro, con le fasi del pre-contatto, contatto, contatto pieno e post-contatto, include sfondi (acquisizioni passate) e figure (determinazioni attuali protese al futuro).
L’aggressività, in quanto forza spontanea destrutturante di sopravvivenza, sostiene l’esperienza di andare verso l’altro, e l’adattamento creativo consente all’individuo di differenziarsi dal contesto sociale, ma anche di esserne pienamente e significativamente parte.

La relazione terapeutica: l’esserci-con del terapeuta e del paziente creano un campo esperienziale in cui l’evolversi spontaneo (non ansioso) del sé al confine di contatto è possibile e l’intenzionalità insita nella richiesta di cura del paziente può attuarsi.

M. Spagnuolo Lobb e P.A. Cavaleri

Definizione tratta da GestaltPedia, l’enciclopedia della Gestalt

“Essere-con” nel mondo di oggi.

Dialogo sulla cultura della relazione tra Pietro Andrea Cavaleri e Giancarlo Pintus (Parte I)

I due psicologi dialogano sulla relazione umana nell’attuale contesto sociale e culturale, sviluppando una lettura in chiave fenomenologica dei cambiamenti epocali nelle relazioni di coppia, familiari, nei gruppi e nella polis. Sulla scorta della metafora post-moderna della relazione come di “una zattera senza timone”, i due autori si confrontano sulle opportunità offerte dal superamento del primato della società sull’individuo, ma anche sulle nuove paure e i nuovi quadri psicopatologici correlati a un’individualità sempre più sganciata dallo sfondo del proprio ground di sicurezze. La relazione si configura allora come uno spazio sacro all’interno del quale nasce la mente, evento relazionale e di confine, ed emerge il bisogno di una nuova alfabetizzazione relazionale.

Giancarlo Pintus: Nel tuo ultimo libro, richiami la parafrasi di Zygmunt Bauman (1999; 2002; 2004; 2007; 2008) per parlare della relazione umana, nell’epoca attuale, come di una zattera senza timone “sulla quale nessuno vuole salire e sulla quale ognuno ha paura di navigare”. Le relazioni sembrano in balia di due opposti pericoli: la sottomissione all’altro o il potere sull’altro. Scrivi ancora: “Ai solidi legami di un tempo, che univano al proprio interno una coppia o fra di loro i membri di una famiglia o, più in generale, di una comunità, si sono sostituiti adesso i legami ‘liquidi’ della società globalizzata, dove non sono previsti impegni duraturi e dove ogni cosa non può che ubbidire rigorosamente ai calcoli freddi ed impietosi della convenienza personale. Ma come è stato possibile che i legami umani si siano improvvisamente liquefatti?” (Cavaleri, 2007, 167).

Pietro A. Cavaleri: Nella mia pratica clinica noto che le coppie si separano con estrema facilità. Le coppie, davanti ad una difficoltà, non provano a risolverla bensì la mettono da parte, attivando un iter che porta poi inevitabilmente alla separazione. Questo avviene anche fra amici e in ogni altro contesto relazionale: la gente investe poco nella relazione. Appena si incontrano dei problemi relazionali, immediatamente si interrompe l’esperienza, si cambia canale, una sorta di zapping che investe l’intera costellazione dei nostri rapporti sociali.

Giancarlo Pintus: Sembra un fenomeno particolarmente diffuso nella nostra cultura post-moderna; perché e come è avvenuto che nel mondo occidentale la comunità delle persone si sfaldasse, che la rete delle relazioni attorno a una persona si frammentasse?

Pietro A. Cavaleri: Oggi l’uomo occidentale vive come rischioso il rapportarsi con l’altro, mentre in passato la sofferenza, le congiunture economiche e le guerre mettevano insieme le persone, aumentando il loro senso di aggregazione. In passato lo stato di bisogno creava la necessità di stare insieme e di essere più coesi (Salonia, 2000). Dobbiamo ricorrere a due coordinate fondamentali: una di carattere antropologico-culturale, l’altra di tipo economico (Cavaleri, 2009a).

Dal punto di vista antropologico, dall’umanesimo ad oggi, in occidente, l’uomo ha rivendicato per sé una centralità che prima non aveva mai avuto. L’uomo esiste da circa 36000 anni, ma da sempre la sua individualità è stata sottoposta alle ragioni, ai bisogni e agli interessi della comunità, ma dal ‘500 in poi l’uomo ha dato inizio ad un processo culturale, avviatosi invero già con la cultura greca, per cui l’individuo è diventato l’epicentro della politica, dell’economia, della morale, della religione dando vita all’epoca moderna. Lentamente, grazie al pensiero rivoluzionario di uomini quali Lutero e Kant, per citarne alcuni, e a movimenti come il liberismo e la rivoluzione francese, l’individuo diventa veramente il centro dell’universo e i rapporti di forza tra individuo e comunità si capovolgono completamente. La massa degli individui non è più subordinata alla comunità, ma al contrario gli individui diventano l’epicentro e il criterio di riferimento della vita sociale. Il rapporto con la comunità e le sue ragioni, il senso del bene comune che rimanda alla comunità, vanno sempre più nello sfondo e l’individuo, in modo autoreferenziale, diventa il punto centrale in base al quale valutare scelte, orientamenti e decisioni. Il sentire legittima ogni azione: “sento” di volermi separare da mia moglie? Il fatto che io “senta” concluso un legame, automaticamente mi dà legittimazione ad avviare una separazione, al di là della responsabilità che mi può legare soprattutto ai figli. Non mi chiedo se dare un seguito a ciò che “sento” può poi provocare delle difficoltà, dei disagi o dei traumi irreversibili agli altri, perché il criterio di riferimento per le mie scelte sono io e soltanto io, non esiste alcuna forma di “responsabilità” verso l’altro.

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIII, 2010 /1, Psicoterapia della Gestalt e fenomenologia

Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 35

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