danza terapeutica

La danza terapeutica tra eccitazione e sostegno

-Margherita Spagnuolo Lobb.

Le osservazioni di Stern (1985; 2004; 2010), le scoperte delle neuroscienze (Gallese, 2006a; 2006b, Damasio, 2010) sono tra le principali evidenze scientifiche che ci portano a pensare che la cura delle esperienze depressive o di quelle maniacali (intese come spostamento dell’ansia nell’agire) non può consistere soltanto nella parola, nell’interpretazione, nel capire se stessi, nel rendere conscio tutto ciò che è inconscio. Occorre soprattutto che il paziente riapprenda la danza tra eccitazione e sostegno, tra paura del rischio e sostegno alla propria energia/desiderio. Si tratta di riapprendere la danza, originata nelle relazioni primarie, tra eccitazione del bambino e accoglienza della madre, tra l’andare verso l’altro con energia e spontaneità e la risposta più o meno rilassata, più o meno accogliente, più o meno energetica dell’altro.

Nella mia pratica clinica, mi sono più volte chiesta quali sono gli aspetti della relazione che un terapeuta deve attraversare per curare l’implicito angosciante del paziente (e anche proprio!).

Nel campo fenomenologico terapeutico cerco e custodisco l’intenzionalità, il movimento in avanti, la speranza, e sostengo la tensione verso il futuro.

Nella clinica delle esperienze depressive colpisce la fissità, che fa figura attraverso la ripetitività dei vissuti e l’assenza di una loro evoluzione trasformativa. La fissità è data dal blocco dell’equilibrio tra eccitazione e sostegno, che sentiamo in ogni contatto significativo e nuovo con il mondo. La fissità riguarda la figura che emerge da uno sfondo esperienziale, sia del paziente che del terapeuta. È in questo sfondo che il movimento permane ed è questo movimento che dobbiamo ricercare e sostenere e che realizza, anche se in modo non evidente, l’evoluzione terapeutica.

Chiamo questo particolare tipo di movimento il now for next in psicoterapia. È il concetto fondamentale che ho espresso nel mio libro, Il Now-for-Next in Psicoterapia. La psicoterapia della Gestalt raccontata nella società post- moderna, che parla della fiducia che il terapeuta ha nel movimento intenzionale del paziente. Questo è particolarmente importante quando lavoriamo con l’esperienza psicotica.

Gli psicotici vivono un’esperienza molto angosciante e, per aiutarli, dobbiamo cambiare i punti di riferimento terapeutici che usiamo con i pazienti nevrotici (cfr. Spagnuolo Lobb, 2003; Francesetti, Spagnuolo Lobb, 2013): l’obiettivo non è quello di esplorare nuove possibilità, nuove figure, cosa possibile quando c’è già un ground di sicurezze scontate; l’obiettivo è di stare accanto al paziente, semplicemente stargli accanto nella sua esistenza, ed è già questo stare con l’angoscia del paziente, rischiando di lasciarsi contagiare da lui, che costituisce il sostegno terapeutico su cui può instaurarsi la fiducia del paziente in se stesso e nella propria esistenza. Si tratta di un sostegno allo sfondo esperienziale, un sostegno al movimento che anima non tanto le figure che il paziente porta quanto la sua tensione verso il cambiamento con quel particolare terapeuta. Questo è successo con la mia paziente: il mio starle accanto ha costruito un ground. Chiaramente questo esporsi alla contaminazione richiede al terapeuta una grande forza, fiducia nell’autoregolazione e una grande chiarezza al confine di contatto.

Il terapeuta si assume il rischio e il coraggio di farsi contagiare: decide con coscienza di non fuggire davanti al “lebbroso”. Non tutti i terapeuti possono essere disponibili a farsi contagiare, è un rischio da valutare, una scelta del terapeuta che gli consente di entrare nei meandri più profondi della sofferenza umana.

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Tratto dall’articolo “Le esperienze depressive in psicoterapia della Gestalt”
in Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli

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esperienze depressive

Le esperienze depressive in psicoterapia della Gestalt (Parte II)

-Margherita Spagnuolo Lobb

Questo articolo tratta quattro aspetti dell’esperienza depressiva: 1. il suo senso ontologico in quanto esperienza umana, 2. l’epistemologia gestaltica delle esperienze depressive, in confronto con l’epistemologia psichiatrica, 3. una lettura fenomenologica ed estetica delle esperienze depressive in psicoterapia (distinguendo tra depressioni reattive, “incarnate” e psicotiche), 4. una considerazione politico-sociale della depressione giovanile nella società contemporanea.

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Le esperienze depressive (e maniacali) nell’epistemologia della clinica gestaltica e della psichiatria

Occorre chiarire una differenza sostanziale tra l’epistemologia psichiatrica e quella gestaltica dell’esperienza depressiva. La prospettiva psichiatrica sulla depressione parte dalla considerazione di una alterazione dell’umore (cfr. Kraepelin, 1907; Meyer in Lief, 1948). Il concetto psichiatrico di depressione infatti non è di una “diminuzione” dell’energia ma di un aumento non controllato di umore negativo. Questo spiega anche la considerazione della mania come corrispettivo polare della depressione: ambedue sono alterazioni dell’umore, mancanza di controllo della qualità umorale delle relazioni.

Il focus è sull’alterazione dell’umore, non sui contenuti umorali, tant’è che nel caso del disturbo bipolare cambiano i contenuti, non il processo disfunzionale. Una considerazione gestaltica dell’esperienza depressiva deve necessariamente riformulare questo concetto in termini di energia-verso-il-contatto. L’umore infatti è un concetto riferito all’individuo in sé, e non al suo contattare l’ambiente. Il focus si sposta dall’umore al coinvolgimento energetico nel contatto. …

Tornando alla precedente definizione delle esperienze depressive come rinuncia al desiderio di essere desiderati, possiamo dire che nella clinica psicoterapica esse si incontrano frequentemente, sia come una fase evolutiva della persona posta di fronte ad uno stress o ad un lutto, sia come strutturazione “incarnata” dell’esperienza di contatto con l’altro.

Altre volte ancora incontriamo la depressione in modalità esperienziali psicotiche; esse emergono dalla condizione percettiva di base tipica della psicosi, che non consente la leggerezza del sentirsi confinati rispetto all’altro e all’ambiente (cfr. Spagnuolo Lobb, 2003; Francesetti, Spagnuolo Lobb, 2013).

Lo sfondo esperienziale è turbolento e confuso, non consente l’emergere dell’esperienza chiara e nitida di un sé separato dal e connesso col mondo. La figura depressiva prende la forma di uno stato stuporoso, una condizione di irraggiungibilità in cui l’energia del sé appare “sospesa” (mentre in altre forme psicotiche, come nella schizofrenia, c’è energia nello spazio “tra”, che ovviamente non è collegata ad una co- determinazione dei soggetti in contatto).

(…)

L’articolo tratta i seguenti temi:

2.1. Il contatto depressivo come sinfonia di domini
2.2. La depressione reattiva
2.3. La depressione “incarnata”
2.4. L’esperienza depressiva psicotica
2.5. Le esperienze maniacali

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014/2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 57

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espressioni depressive

Le esperienze depressive in psicoterapia della Gestalt

-Margherita Spagnuolo Lobb

Questo articolo tratta quattro aspetti dell’esperienza depressiva:
1. il suo senso ontologico in quanto esperienza umana
2. l’epistemologia gestaltica delle esperienze depressive, in confronto con l’epistemologia psichiatrica
3. una lettura fenomenologica ed estetica delle esperienze depressive in psicoterapia (distinguendo tra depressioni reattive, “incarnate” e psicotiche)
4. una considerazione politico-sociale della depressione giovanile nella società contemporanea

Gioia e dolore sono doni ugualmente preziosi che bisogna assaporare a fondo, ciascuno nella sua purezza (…).
Mediante la gioia la bellezza entra nella nostra anima.
Mediante il dolore entra nel nostro corpo (…) bisogna aprire ad entrambi il centro stesso dell’anima (…).

Simone Weil (2008)

1. Le esperienze depressive come esperienze umane

Definire l’esperienza depressiva ci porta immancabilmente a definire l’esperienza di felicità, che è stata sempre un passo obbligato per i filosofi, per gli psicoterapeuti e oggi anche per i genetisti. Definire la felicità e la sua mancanza implica definire l’ontologia dell’essere umano, come pure la sua sanità e malattia, nonché le sue mete evolutive ed etiche. Già ne Il disagio della civiltà, Freud (1929) proponeva la necessità di rinunciare alla felicità per garantirsi la sicurezza (il dominio sui bisogni, lo spostamento della libido verso la sublimazione, l’appagamento fantasticato sussidiario, ecc.), sistematizzando uno split tra bisogni individuali e bisogni sociali (Spagnuolo Lobb et al., 1996).

Il pensiero esistenziale e quello fenomenologico offrivano poi il ponte per collegare i poli di questo split: Sartre proponeva una dialettica natura-cultura in cui il desiderio (da pulsione basica di natura esclusivamente animale) diventava appello alla trascendenza, categoria fondamentale dell’essere, coscienza della mancanza che si è (cfr. Dumoulié, 1999), fino alla formulazione di Lacan che parlava di “desiderio del desiderio dell’altro”, fondando un’etica relazionale basata sull’esperienza dell’incertezza (cfr. Prigogine, 1996). In questa prospettiva, l’esistenza non è tollerabile senza il desiderio, anzi per dirla con Heidegger (1962), il desiderio è implicito nella natura progettuale dell’uomo.

La dimensione temporale del desiderio segna uno spartiacque tra l’analisi del desiderio passato, che conferisce carica al comportamento attuale ma che non potrà mai realizzarsi pienamente (appunto perché differito), e il desiderio ontologicamente inteso come parte della progettualità umana, come desiderio di essere desiderato dall’altro, come sicurezza autonoma che deriva da uno sfondo di appartenenza e di reciprocità, o di intercorporeità, come sottolinea Merleau-Ponty (2003). Ecco, credo che l’esperienza depressiva abbia a che fare non tanto con la frustrazione del desiderio passato, quanto con la rinuncia al desiderio di essere desiderato.

Si tratta di uno spostamento di paradigma da una comprensione causale (si è depressi per un fallimento della carica energetica impegnata in investimenti affettivi e sociali importanti) ad una comprensione esperienziale, fenomenologica: chi è depresso non desidera più di essere desiderato, di essere amato dall’altro, a prescindere dalle frustrazioni ricevute. Questo taglio ci consente di apprezzare l’esperienza depressiva per quello che è, senza cercare di spiegarla per farcene una ragione. La cura consiste conseguentemente nello stare accanto a chi non desidera di essere desiderato, senza mire di cambiamento ma cercando un filo che possa unire le due esistenze, quella del paziente e quella del terapeuta.

In linea con il pensiero aristotelico, e gettando luce su un altro aspetto dell’esperienza depressiva, Galimberti (2009) collega la depressione al non riconoscere ciò che si è, e pertanto al non porre limiti ai desideri. Egli considera la felicità come un mito dei nostri tempi e oppone all’idea di felicità “commerciale”, stagnante e fuori dal nostro controllo che la società ci propone (generando dunque depressione), il dovere etico, di aristoteliana memoria, di una felicità che dipende da una conoscenza di sé e dunque dal limitare i desideri a ciò che è possibile, secondo l’idea nietzschiana del “diventa ciò che sei”. La felicità non come soddisfazione di desideri dunque, né come premio, ma come virtù di governare se stessi. L’esperienza depressiva deriverebbe in questo senso dalla mancanza di governo di sé, dal non sentire ciò che si è. Ritengo che questa etica della felicità è assolutamente necessaria in una società come la nostra, dominata dalla globalizzazione delle comunicazioni e contestualmente dalla mancanza di relazioni contenitive: due condizioni che portano i nostri giovani all’impossibilità di sentire se stessi, innanzitutto a livello di sensazioni corporee e poi anche di emozioni, e dunque all’emergere del sentimento depressivo (cfr. Spagnuolo Lobb, 2013, p. 24 ss.).

Coerentemente con la visione etica di Galimberti, Natoli (1994) definisce la felicità come uno stato di grazia, naturale, che non necessita di riflessione, mentre il suo opposto, il dolore, chiude in una fatale solitudine, scollegata dalla naturalità della persona umana in psicoterapia della Gestalt diciamo dalla spontaneità del sé (Spagnuolo Lobb, 2005).

Mi piace il termine borderland usato da Callieri (2008; 2010) per indicare la terra di mezzo tra sicurezza e desiderio (potremmo anche dire tra appartenenza e divergenza) in cui accade l’apertura alla speranza della felicità. Mi sembra che nell’esperienza depressiva manchi questa apertura, questo respiro pieno, questo porsi in prospettiva dell’accadere, o del now-for-next (Spagnuolo Lobb, 2010) proprio nella situazione del vivere la traità, il passaggio da sé all’altro, o il modo medio così mirabilmente descritto da Goodman (Perls et al., 1951). Siamo ontologicamente proiettati al futuro, l’esperienza depressiva implica un crollo di questa dimensione ontologica dell’essere umano.

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli

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