ri-emergere

Il ri-emergere del sé

La storia della relazione terapeutica con un paziente con grave cerebrolesione acquisita.

-Rosanna Biasi

In questo lavoro viene presentato un intervento riabilitativo multidisciplinare, quale sostegno relazionale e ambientale all’emergere del sé, con un paziente che ha subito una grave cerebrolesione in seguito ad incidente stradale. Intervento psicoterapico, contenimento ambientale e ritmo della stimolazione sono stati i facilitatori di una nuova organizzazione, che ha aumentato progressivamente la permanenza del sé, rendendo prevalenti i momenti in cui, da frantumato, si disvelava e si componeva in unità in grado di entrare in contatto con l’ambiente.

La relazione psicoterapeutica di cui voglio dare testimonianza fa parte di un intervento riabilitativo, che ha coinvolto un’équipe multiprofessionale, nel trattamento di un paziente con grave cerebrolesione acquisita, a pochi mesi dall’evento traumatico. Sin dai primi momenti è stato proposto un sostegno al ri-emergere del Sé autobiografico (Damasio, 2012), ponendo attenzione non solo agli aspetti comportamentali e funzionali, ma anche a quelli di natura affettivo-emotiva: ascoltare il paziente, al di là dei suoi messaggi frammentari, coglierne i bisogni e assumersi il carico del suo dolore, ha consentito, sin da subito, di introdurre nella relazione terapeutica anche l’elemento della cura di queste dimensioni (Chinosi, 2010).

I riferimenti teorici, nell’applicazione clinica, sono stati i lavori di Goldstein (2010) e la sua teoria “olistica” dell’organismo umano che attinge ad alcune intuizioni della psicologia della Gestalt per una comprensione del funzionamento del cervello. Fondamentali per la progettazione dell’intervento sono stati anche gli studi sulla coscienza di Damasio (2012) che ha affrontato, da una prospettiva antidualistica, il discorso sul Sé, inteso come processo che emerge, in un flusso incessante, dalla corteccia cerebrale e dalle strutture sottocorticali, ma a cui concorre il tronco encefalico che è profondamente legato al corpo. Infine, il progetto si è fondato sull’epistemologia della psicoterapia della Gestalt e in particolare sulla dinamica figura/sfondo e sulla teoria del Sé come funzione emergente nel farsi dell’esperienza.

L’articolo si compone di tre parti: nella prima viene descritto il progetto riabilitativo (e lo sfondo da cui emerge) che costituisce l’elemento organizzante dei vari interventi specialistici; nella parte centrale dell’esposizione viene narrata la relazione psicoterapica; infine, prima delle conclusioni, viene data voce ai vissuti dell’équipe. Attenzionare i vari attori dell’intervento (terapeuta, équipe, struttura, ambiente), in questa sede, è un modo per ricomporre ad unità anche la riflessione sulla cura dei pazienti con grave cerebrolesione acquisita.

  • Gli antefatti

Mario, un uomo di 50 anni, è arrivato nella nostra comunità nel giugno del 20133. Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre 2012 era stato vittima di un grave incidente stradale. La relazione di dimissione della struttura riabilitativa da cui proveniva presentava un paziente vigile, incapace di eseguire ordini semplici a causa di una elevata distraibilità, deterioramento cognitivo persistente, con globale deficit di memoria a breve e lungo termine, disorientamento nel tempo e nello spazio, mancanza di consapevolezza, deficit di attenzione. Dal punto di vista emotivo venivano descritti repentini sbalzi d’umore (da euforico a sereno, a ostile e aggressivo, indipendentemente dall’ambiente circostante) e reazioni emozionali sproporzionate rispetto agli stimoli. Nella prognosi veniva riportato un quadro di grave disabilità da sindrome psico-organica post-traumatica in via di stabilizzazione.

Come équipe non potevamo accettare che la storia di Mario si concludesse così.

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Quaderni di Gestalt, Vol XXVIII, 2015-2, Il sè e il campo in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da Franco Angeli

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sensomotorio

L'utilizzo dell’approccio sensomotorio nel lavoro con il trauma

-Miriam Taylor

Ispirandosi alle intuizioni legate alla ricerca neuroscientifica – nello specifico sull’eccitazione autonomica, sulla struttura cerebrale e la plasticità neuronale – l’articolo prende in esame i recenti sviluppi in materia di trattamento del trauma e le modalità d’integrazione delle nuove conoscenze con la metodologia gestaltica. 

La terapia sensomotoria del trauma offre alcuni nuovi concetti attraverso i quali è possibile riconsiderare il trattamento in una modalità che lo renda più sicuro ed efficace. Attraverso l’uso di esempi clinici, l’articolo illustra l’applicazione di tre concetti sensomotori, integrandoli con la pratica gestaltica. Descrive inoltre brevemente il ruolo del sistema difensivo nel trattamento del trauma in una prospettiva sensomotoria. In tutto il testo vengono considerati gli aspetti relazionali di questa tipologia di lavoro.

La terapia sensomotoria per il trattamento del trauma è nata sulla scia dei principi della Hakomi Therapy (Kurtz, 1990; 2007), a sua volta influenzata da Fritz Perls e Wilhelm Reich. Sebbene le sue basi teoriche, ispirate alle ricerche sul trauma, siano diverse da quelle della terapia della Gestalt, molti sono gli aspetti condivisi. La terapia sensomotoria ricava alcuni elementi dalle neuro- scienze e li elabora al fine di formulare una metodologia coerente per il trattamento del trauma (Odgen, Minton, Pain, 2006). Essa ci consente di attingere ad alcuni concetti teorici, diagnostici e metodologici interconnessi fra loro, quattro dei quali saranno discussi in questo articolo.

La psicoterapia sensomotoria enfatizza il ruolo del corpo nella cura finalizzata al superamento del trauma (vedi anche van der Kolk, 1994) e considera il fatto che il fallimento nell’integrazione dell’esperienza fa parte del lavoro con il trauma (Janet, in Ogden, Minton, Pain, 2006, p. 36). Personalmente ho trovato il metodo sensomotorio prezioso ed efficace quando l’ho integrato nella mia pratica gestaltica, per quanto esso presenti alcune “sfide” per gli psicoterapeuti della Gestalt e malgrado, ad una prima impressione, la psicoterapia sensomotoria sembri avere poco da offrire ai terapeuti della Gestalt, per la presenza di numerosi aspetti comuni.

La psicoterapia sensomotoria si esprime in termini di monitoraggio, speri- mentazione, contatto e mindfulness. Descrive con chiarezza e precisione per- ché questi atteggiamenti supportano la terapia del trauma, cosa che invece non è esplicitata nella letteratura della Gestalt. Il terapeuta sensomotorio è più selettivo nello scegliere le figure da trattare, più ripetitivo nell’applicare le tecniche e ha uno scopo ben preciso quando lavora con il trauma.

Ciò può essere applicato anche alla pratica gestaltica, ma è nell’attenzione a certi dettagli dell’esperienza che sta la differenza. La psicoterapia sensomotoria potrebbe essere criticata in quanto eccessivamente tecnica e stereotipata, troppo “io-esso”, ma in realtà richiede una grande maestria perché le sue competenze siano usate in modo fluido e «incorporate nella spontaneità relazionale» (Bromberg, 2011, p. 123). Nelle mani di un terapeuta relazionale esperto diventa un approccio altamente flessibile, efficace e singolare.

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L’articolo affronta i seguenti temi:

2. La finestra di tolleranza

3. Risorse somatiche

4. La risposta orientativa

5. I sistemi difensivi

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVIII, 2015-1, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt parte II
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 9

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Il trauma dell’abuso e il delicato processo della riparazione

:come ridare voce e corpo al bambino violato

-Rosanna Militello ntervista a Marinella Malacrea (Parte II)
 

Marinella Malacrea, in questa intervista risponde con ampiezza ed accuratezza a precise domande su un tema delicato, complesso e drammatico, che seppur “vecchio come il mondo”, continua a sconcertare, a stimolare e ad affascinare il lavoro di ricerca e clinico, di chi si occupa di bambini violati. Il lavoro sul trauma dell’abuso all’infanzia, oggi in continua evoluzione, richiede la necessità di modelli terapeutici efficaci per poter rielaborare e riparare quei blocchi evolutivi e quelle pesanti cicatrici che hanno arrestato in modo dirompente la normale spontaneità che è insita nel cuore di ogni bambino.

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Rosanna Militello: Nella psicoterapia della Gestalt l’incontro terapeutico viene visto come una co-creazione, una danza in cui il bambino corre il rischio di potersi esprimere mentre il terapeuta si prende il rischio di accompagnarlo in un viaggio verso terre sconosciute, aprendo spazi nuovi di immaginazione (Spagnuolo Lobb, 2007). Potrebbe descriverci le fasi del processo terapeutico che segue nel lavoro clinico con il bambino vittima di Esperienze Sfavorevoli Infantili?

Marinella Malacrea: Come già detto, la psicoterapia nell’abuso all’infanzia è finalizzata in primo luogo ad agire sul sistema di significati del soggetto, cambiando le “lenti” con cui viene letta l’esperienza, diminuendo il cortocircuito tipico dei processi post traumatici e ripristinando la capacità di integrazione, archiviazione e controllo su pensieri, ricordi, comportamenti, stati psicofisici. Fondamentale è l’idea che il trattamento è un processo, che, in modo non lineare, attraversa tuttavia fasi obbligatorie. Imprescindibile diventa la progettazione dell’intervento in ogni sua fase.

Tale progettazione sarà guidata da due considerazioni: la prima attiene alla necessità di governare il processo terapeutico garantendo sicurezza, gradualità, sintonizzazione con la piccola vittima ed evitando per quanto possibile, riattivazioni traumatiche; la seconda discenderà dalla consapevolezza che non ci si può attendere che i modelli operativi post traumatici vengano attaccati spontaneamente dal piccolo paziente. Quindi, spetta a chi cura guidare con mano ferma la rivisitazione dei processi psichici disfunzionali, portando per così dire per mano il bambino.

I presupposti del contratto terapeutico, costituiti da motivazione e stabilizzazione (controllo sufficiente della sofferenza), devono trovare un equilibrio accettabile. Il trattamento è, infatti, a rischio di “implosione” se c’è insufficiente spinta al cambiamento o al contrario di “esplosione” se pesa una eccessiva labilità e criticità personale. Si può affermare che l’attenzione a queste premesse costituisce il focus trasversale all’intero processo terapeutico. Va notata ancora la precocità con cui nel trattamento viene affrontata la necessità di “guardare da vicino” l’esperienza traumatica più grave, recuperando progressivamente, a cerchi concentrici, premesse e conseguenze, nonché esperienze traumatiche secondarie.

L’obiettivo trasversale della cura, che affonda le sue radici in un humus empatico, è collaborare attivamente a produrre “finestre di plasticità”, di cui ho parlato in precedenza. Lavorando con il bambino appare importante accordarsi sul fatto che lui stesso che è il vero protagonista, affronterà la sua sofferenza in un lavoro di “squadra” con il terapeuta.

La metafora della “squadra” si rivela densa di valore e immediatamente esplicativa. Una squadra si fonda su un libero contratto, è formata per mettere insieme le forze per vincere, è sintonizzata sul raggiungimento di un comune obiettivo, ognuno deve fare la sua parte, nella squadra non ci sono segreti. “Essere in squadra” consente fin dal primo incontro di parlarsi chiaro, di esplicitare le informazioni pregresse comunque raccolte e che a volte neppure il bambino conosce nella sua interezza, di definire gli obiettivi, di fare l’elenco dei problemi da risolvere, di chiarire i metodi che verranno adottati e molto altro: in una parola, consente di responsabilizzare il bambino nel suo percorso terapeutico. In quest’ottica di cooperazione un passaggio fondamentale è la fase della restituzione al piccolo paziente, che deve contenere, pur nel dettaglio unico e specifico del singolo individuo, alcuni “messaggi forti e chiari”.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV,  2011 – 1, Concentrazione, emergenza e trauma
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 13

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come ridare voce e corpo al bambino violato

Rosanna Militello intervista Marinella Malacrea (Parte II)

Marinella Malacrea, in questa intervista risponde con ampiezza ed accuratezza a precise domande su un tema delicato, complesso e drammatico, che seppur “vecchio come il mondo”, continua a sconcertare, a stimolare e ad affascinare il lavoro di ricerca e clinico, di chi si occupa di bambini violati. Il lavoro sul trauma sessuale all’infanzia, oggi in continua evoluzione, richiede la necessità di modelli terapeutici efficaci per poter rielaborare e riparare quei blocchi evolutivi e quelle pesanti cicatrici che hanno arrestato in modo dirompente la normale spontaneità che è insita nel cuore di ogni bambino.

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Rosanna Militello: Quanto incide l’ambiente non accudente, non terapeutico durante il trattamento?

Marinella Malacrea: Pur non sottovalutando un’ottica preventiva, è saggio ammettere non solo che la maggior parte delle evenienze ambientali fattuali non è controllabile ed evitabile, ma che comunque parte di esse contengono anche un potenziale positivo. Occorre quindi “cavalcare la tigre”, cercando nelle varie vicende una prospettiva che le renda occasione, sia pur sofferta, di promozione personale.

A tal proposito, i concetti chiave che abbiamo individuato sono due: quello di “riattivatore traumatico” e quello di “finestra di plasticità”, che possono ben essere considerati come due facce della stessa medaglia. Il primo passo è il riconoscimento dei riattivatori traumatici: è noto che i soggetti traumatizzati nell’infanzia acquisiscono una maggiore vulnerabilità al ripetersi di evenienze analoghe a quelle che li hanno danneggiati. Tendono anche a interpretare in modo allarmato circostanze di per sé non minacciose, attraverso la costruzione permanente della convinzione di avere a che fare con un “mondo malevolo”. Tutto ciò che comporta un’alta tonalità emotiva, anche di segno positivo, e un significativo coinvolgimento relazionale può destabilizzare il soggetto dando luogo al ripristino automatico degli schemi di funzionamento post traumatico. Le piccole vittime tendono dunque a reagire con modalità post traumatiche specialmente alle esperienze che comportano intensità e prossimità dei legami, cioè circostanze in cui il soggetto traumatizzato sente aumentare la propria vulnerabilità. Sul piano operativo, quanto sopra impone l’esigenza di concepire la presa in carico come marcata dalla probabilità di ricadute, che vanno riconosciute e che richiedono la ripresa di cure intensive.

Ma si può fare di più in tutte quelle circostanze che potenzialmente re-innescano le reazioni post traumatiche, ma che possono essere considerate evenienze addirittura desiderabili? Pensiamo agli esiti giudiziari che comportano protezione e migliori prospettive future nella vita del bambino; o a nuove relazioni familiari importanti (affidamento, adozione); o a fasi di sviluppo personale fisiologici e cruciali, come la pubertà e il passaggio all’adolescenza; o alle prime prove di coinvolgimento in relazioni affettive e sessuali con pari. Come detto sopra, ogni occasione con queste caratteristiche di pregnanza può dare riattivazione. Ci viene in soccorso a questo punto l’altro concetto chiave, quello di “finestra di plasticità”.Ciò di cui può essere temuta la forza destabilizzante è anche una possibilità unica di riordino mentale. In questi momenti le strutture cerebrali ritrovano in parte la flessibilità perduta. È quindi il momento propizio: la tempestiva messa in campo di un intervento terapeutico mirato, facendo leva proprio sulla momentanea destabilizzazione e sul momentaneo innalzamento della temperatura emotiva, può essere occasione privilegiata per lavorare sulla scelta di diverse abilità di coping, per l’elaborazione di nuovi significati, per il contenimento emotivo, per il progresso nei processi di lutto, in definitiva per il raggiungimento di un assetto di funzionamento più sano.

Rosanna Militello: Secondo la mia esperienza clinica, all’interno della stanza della terapia, il bisogno di raccontare e raccontarsi del bambino violato, di buttare fuori lo sporco, di conoscere e sentire le emozioni, si chiarifica sempre di più. Attraverso l’utilizzo di modalità creative non invadenti e più vicine al linguaggio infantile diventa più facile contattare il dolore e la vergogna. Quando gli si dà la possibilità di creare, il bambino lascia emergere nuove figure, anche se lo sfondo è caratterizzato da quella confusione di cui l’abuso è assoluto portatore. Cosa ne pensa?

Marinella Malacrea: Lo scarico motorio, il non pensiero, la televisione o i videogiochi, il dormire, l’ammalarsi, perfino l’applicarsi in certe prestazioni scolastiche “meccaniche” ma impegnative per la mente, costituiscono strategie utilizzate dai bambini per rinforzare l’impulso e la tendenza a segregare ricordi e vissuti traumatici nell’angolo più inaccessibile della mente. Questo impegno nella “fuga” lascia dietro di sé una scia preoccupante di sintomi che si manifestano con disturbi del sonno, del comportamento alimentare, disturbi psicosomatici, del controllo delle funzioni fisiologiche, dell’umore, dell’apprendimento e della capacità di relazionarsi. Questo sforzo di evitamento del ricordo e dei vissuti traumatici opera da rinforzo alla filosofia di fondo improntata alla solitudine, alla disistima di sé (non posso mostrarmi a nessuno, non sono amabile) e degli altri (nessuno mi potrà capire, non posso fidarmi di nessuno), alla necessità di tenere tutto sotto controllo, al disgusto e alla vergogna, alla previsione negativa sul proprio futuro, alla demotivazione.

L’intervento psicologico con le piccole vittime si configura, sin dal primo approccio, come una vera guerra ai meccanismi di negazione, evitamento e dissociazione. A quel punto bastano a volte poche sedute (specie da quando abbiamo introdotto la tecnica EMDR) per sbloccare e far virare funzionamenti che erano sembrati per mesi, a volte davvero tanti, inamovibili. Come si sa, le favole ci insegnano che le magie finiscono a mezzanotte: quindi abbiamo imparato a non spaventarci quando, raggiunto un livello di possibilità elaborativa ideale, ricompaiono, in apparenza più virulenti che mai, i meccanismi di evitamento che ben avevamo imparato a conoscere. L’esperienza positiva fatta non va perduta: sembrano ripercorrersi i soliti sentieri della mente, ma con capacità sempre maggiori di contenimento e possibilità di elaborazione.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011/1, Concentrazione, emergenza e trauma
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 13.

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