L'intuito del terapeuta è appreso o innato? E come si apprende?

L’intuito del terapeuta è appreso o innato? E come si apprende?

Di Federica Sciacca

Gli studi sulla conoscenza relazionale estetica (CRE) e sulla creazione e validazione di uno strumento di misura in grado di valutarla prendono avvio dall’esigenza di chiarire la definizione di questo costrutto teorico e creare uno strumento valido, attendibile e approvato dalla comunità scientifica che fosse in grado di misurare la conoscenza relazionale estetica dei terapeuti della gestalt, ovvero il modo in cui essi utilizzano i propri sensi per comprendere la situazione dei pazienti.

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formazione

La formazione in psicoterapia della Gestalt

L’evoluzione del metodo

-Margherita Spagnuolo Lobb

Dalla sua fondazione, la psicoterapia della Gestalt è passata da una metodologia della prassi formativa “ingenua” ad una prassi ben articolata e varia. Sono lontani ormai i tempi in cui la formazione dello psicoterapeuta di orientamento umanistico avveniva fondamentalmente attraverso metodiche esperienziali (il lavoro personale in gruppo) e dimostrative (l’osservazione dal vivo del lavoro clinico dei “maestri”). Il concetto di essere centrato sul paziente (o sull’allievo), che 50 anni fa esprimeva il superamento della logica interpretativa, nei decenni si è evoluto nella conoscenza sempre più dettagliata delle emozioni che si sviluppano nella relazione terapeutica (e formativa) e nel suo sviluppo temporale.

In Italia, in particolare, il riconoscimento giuridico della professione dello psicoterapeuta (all’interno della legge n. 56/89 sull’ordinamento della professione dello psicologo) ha portato tutte le scuole ad una regolamentazione ufficiale della formazione, da depositare presso il Ministero dell’Università, che le ha condotte ad una riflessione sulla teoria della prassi. Questo “obbligo” da una parte ha migliorato la performance dei servizi formativi erogati, dall’altra ha fatto evolvere il pensiero sulla formazione, che, in linea con i trend culturali, ha decisamente abbandonato la formula del maestro come unico referente di un modello da apprendere. Oggi sono le scuole a proporre modelli formativi, comunità di insegnamento/apprendimento che crescono sia nel dialogo interno – tra i didatti e tra i didatti e gli allievi – che esterno, tra approcci diversi. La regolamentazione ufficiale dei programmi formativi ha anche favorito lo scambio tra metodi rispetto

alle prassi formative, con una evidente apertura dei didatti verso terre di confine, quali la condivisione di ricerche e il dialogo sui casi clinici da epistemologie diverse.

Parallelamente a questo processo di evoluzione della prassi formativa gestaltica italiana, la fondazione degli Ordini degli Psicologi ha consentito l’istituzione di un codice etico della psicoterapia, che ha ben definito i confini del setting psicoterapico, escludendone possibili manipolazioni narcisistiche: ciò che guida l’intervento e la formazione è la domanda del paziente/allievo, non l’idea che il terapeuta o “maestro” si fa di essa.

In Italia dunque il confronto con le definizioni imposte dalla legge e dal codice deontologico ha portato le scuole di specializzazione in psicoterapia a erogare servizi formativi con standard altamente qualificati.

Oggi sappiamo che formare implica:

  •  aspetti giuridici: il riconoscimento formale della professione;
  •  aspetti amministrativi e gestionali: la struttura organizzativa che consente all’allievo di impegnarsi nella formazione in modo significativo. Le facilitazioni amministrative, la possibilità di rintracciare materiale  didattico, la considerazione del punto di vista degli allievi sulla qualità, sono tutti strumenti che favoriscono il rispetto del bisogno formativo dell’allievo e le condizioni adeguate alla alta formazione;
  •  aspetti metodologici e didattici. L’aspetto metodologico-didattico della formazione gestaltica include a sua volta tre grandi categorie:
  •  la programmazione didattica (che deve essere in grado di trasmettere il modello in modo fluido e armonico);
  •  la qualità dell’ambiente umano didattico (che riguarda sia la qualità dei didatti che il clima tra di loro e il senso di appartenenza al modello e alla Scuola);
  • una mappa per osservare il processo di gruppo della classe, come evoluzione delle intenzionalità di contatto degli allievi. Ma, al di sopra di tutti questi aspetti, occorre collocare l’etica dell’azione formativa, come definizione sovraordinata a cui tutto ciò che riguarda la formazione va ricondotto, dalle dinamiche relazionali che emergono nel campo fenomenologico formativo alle pratiche amministrative e didattiche. L’etica garantisce il raggiungimento dello scopo “contrattato” tra le parti, ossia la realizzazione dell’obiettivo formativo, il “dare forma” all’intenzione dell’allievo di diventare psicoterapeuta e all’intenzione del formatore di trasmettere un modello favorendone l’“incarnazione” in persone concrete.

La maggiore complessità e articolazione della formazione in psicoterapia della Gestalt deve tuttavia convivere con l’epistemologia gestaltica basata sulla spontaneità dei processi relazionali: per questo, formare nel nostro approccio diventa una sfida molto interessante. La prassi della formazione in gruppo – a differenza degli inizi storici del modello, in cui la formazione avveniva attraverso seminari molto significativi ma sporadici – è diventata un processo a lungo termine e si è arricchita della considerazione dei processi di gruppo. La “novità, eccitazione e crescita” che, come nel titolo del testo fondante di Perls, Hefferline e Goodman, erano considerate necessarie per la crescita individuale, oggi sono considerate necessarie per il processo di crescita del gruppo in formazione. Il processo di gruppo, mai preso in considerazione nel modello formativo di Perls, è diventato uno specifico gestaltico della formazione psicoterapica dagli anni ’80 in poi, grazie soprattutto alle riflessioni all’interno del New York Institute for Gestalt Therapy3 e da parte di altri colleghi.

I contributi raccolti in questo numero dei Quaderni di Gestalt intendono offrire ai lettori il punto di vista di alcuni psicoterapeuti contemporanei. (…)

Ed è su questa nota di passione per il dialogo e per la trasmissione dell’arte terapeutica che vi auguro buona lettura, dandovi appuntamento per i prossimi numeri del 2011, che saranno dedicati, il primo, a “trauma ed emergenza” ed il secondo a “neuroscienze e psicoterapia”.


Quaderni di Gestalt, Vol XXIII, 2010-2, La formazione in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da Franco Angeli

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psicoterapeuta

Nuove tendenze nella formazione dello psicoterapeuta

– Donna Orange e Margherita Spagnuolo Lobb

Margherita Spagnuolo Lobb
Ti ringrazio molto per aver accettato di dialogare con me in occasione del convegno al quale stai partecipando qui a Siracusa, la mia città.

Donna Orange
Una bellissima città! Sarà un piacere dialogare con te.

Margherita Spagnuolo Lobb
Vorrei includere questa intervista in un numero della nostra rivista ita- liana dedicato al tema della formazione in psicoterapia. Comincerei allora con alcune domande sulla formazione, per proseguire poi con altri argo- menti che per certi versi ci accomunano e per altri ci differenziano. Innanzi- tutto mi piacerebbe conoscere il tuo pensiero riguardo alla formazione degli psicoterapeuti. Qual è secondo te il nucleo centrale del training in psicoterapia? Per esempio, pensi che sia importante fare una selezione dei candidati, oppure ritieni che tutti possano diventare terapeuti? E ancora, qual è l’insegnamento centrale?

Donna Orange
Sono domande molto interessanti. Premetto che ciò che dirò non va inteso in alcun modo come una critica ai metodi di formazione che usate in terapia della Gestalt, poiché non li conosco bene. Posso soltanto parlare della mia esperienza nella formazione psicoanalitica. Personalmente non direi che chiunque può diventare psicoterapeuta, o comunque un bravo psicoterapeuta; d’altro canto non è sempre possibile capire fin dall’inizio chi potrà diventarlo e chi no. Credo quindi che qualche volta sia necessario accettare i candidati con il beneficio del dubbio, chiarendo il fatto che potrebbe anche non funzionare. Perché altrimenti rischieremmo di perdere delle persone valide, malgrado sia indubbiamente molto difficile dover dire a qualcuno, se le cose non vanno, “questa non è la strada giusta per te”. Possiamo però dire che alcune qualità personali sono assolutamente necessarie per praticare la psicoterapia e qualche volta i colloqui iniziali possono aiutarci a capire se una persona possiede un atteggiamento di apertura, compassione, generosità e disponibilità ad apprendere sempre dal paziente. Qualunque atteggiamento del tipo “tanto io so già, non ho nulla da imparare” costituisce un grosso problema ed è ciò che maggiormente interferisce con la formazione o con la possibilità di essere un buon terapeuta.

Margherita Spagnuolo Lobb
Dunque tu ritieni che l’ostacolo maggiore alla formazione dello psicoterapeuta sia l’atteggiamento, per così dire, grandioso di chi si avvicina a questo delicato e complesso mestiere con l’idea di modificare ciò che non funziona “là fuori”, più che con l’idea di mettersi in gioco in prima persona per comprendere la sofferenza umana. Questo è il dettato fondamentale degli approcci del profondo, ma anche della psicoterapia della Gestalt, secondo la quale lo strumento fondamentale della relazione di cura è proprio la consapevolezza del terapeuta, la sua competenza nell’essere pienamente presente al confine di contatto con il paziente. E ciò si può ottenere solo attraverso il lavoro su se stessi, sia nel setting individuale che di gruppo. Che ne pensi?

Donna Orange
Per qualcuno che vuole diventare terapeuta l’ostacolo maggiore è costituito dall’idea di sapere già tutto: sapere cosa non va nel paziente, sapere ciò che va cambiato nel paziente…, insomma credere di sapere già una serie di cose. Invece è fondamentale avere un profondo atteggiamento di apertura, la capacità di imparare sempre dagli insegnanti, dai pazienti, dai libri, da tutto. Una enorme disponibilità ad imparare tutta la vita, che non si esaurisca mai; nell’attimo in cui penso di sapere, mi trovo nei guai. Quindi questo è il mio primo pensiero.

Margherita Spagnuolo Lobb
E pensi che questo sia anche l’insegnamento centrale?

(…)

Quaderni di Gestalt, Vol XXIII, 2010-2, La formazione in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da Franco Angeli

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La follia e l'arte dello psicoterapeuta

Intervista a Umberto Galimberti (Parte I)

Attraverso gli stimoli, di ispirazione gestaltica, di Margherita Spagnuolo Lobb e le risposte, filosoficamente vicine all’approccio junghiano, di Umberto Galimberti, questa intervista affronta temi importanti della clinica contemporanea. Dal rapporto tra il ruolo e il vissuto dello psicoterapeuta, il dialogo si intreccia con riflessioni sulla società post-moderna e sulle problematiche che vengono presentate allo psicoterapeuta nel tempo della “società cementata” (dipendenze, internet, Facebook, crisi economica). Lo psicoterapeuta, come un artista, deve imparare a conoscere sia le proprie possibilità che gli strumenti di lavoro, e deve avere un tipo particolare di fede. È di fondamentale importanza che sia consapevole della propria follìa, avendola attraversata, per riconoscere quella dell’altro, che sia consapevole dei propri dolori per vedere quelli dell’altro, che possa sentire il proprio corpo per sostenere la sensibilità dell’altro. Ed è altrettanto importante che lo psicoterapeuta si “protegga” dalla contaminazione che un’esposizione eccessiva al dolore può provocare.

Margherita Spagnuolo Lobb: Ti ringrazio per avermi concesso questa intervista, che rappresenta un’occasione importante di apprendimento e di confronto per i lettori della rivista Quaderni di Gestalt. Vorrei collegarmi a quanto hai detto ieri, nella tavola rotonda di apertura di questo convegno, riguardo alla psicoterapia come arte. Per la psicoterapia della Gestalt, i concetti di psicoterapia come arte, di estetica della relazione, di psicopatologia come adattamento creativo del paziente ad una situazione difficile, di co-creazione del confine di contatto tra paziente e terapeuta, sono fondamentali e caratterizzanti. Alcuni di questi concetti sono basilari anche per l’approccio junghiano, a te caro.
Hai precisato che la psicoterapia appartiene al mondo dell’arte, piuttosto che a quello della scienza. Oggi la psicoterapia si interroga su nuovi modi di curare il disagio psichico, modi che – al di là di codificazioni prestabilite – devono adeguarsi al sentire sociale incerto. Molti approcci, e la psicoterapia della Gestalt per prima, sottolineano i codici processuali del dialogo terapeutico, la “musica” che il terapeuta e il paziente co-creano, il modo in cui riescono a concordare i loro linguaggi, più che la comprensione dell’inconscio. Sembra che la cura non è più intesa da nessuno come mera analisi dei vissuti del paziente da parte dell’analista neutrale, ma piuttosto come un modo di entrare in contatto: sia il paziente che il terapeuta “si giocano” la propria sofferenza in una relazione “reale”. A questo punto, non essendo più schermati dalla neutralità, gli psicoterapeuti sono sfidati a fare la cosa giusta al momento giusto: a cogliere il momento chiave che consente di innestare nell’esperienza del paziente un germoglio relazionale sano, aderente alla realtà di ciò che si sente, questo potrebbe essere il nuovo must della psicoterapia, l’arte terapeutica, e anche un messaggio per le relazioni sociali in genere. La creatività, che viaggia su canoni di incertezza e di improvvisazione, potrebbe essere il codice relazionale necessario per la società di oggi. Un buon terapeuta, hai detto, deve avere un buon rapporto con la propria follia. Possiamo dire che deve avere anche un buon rapporto con la propria arte? Quali sono le caratteristiche che fanno di un terapeuta un artista e in che modo è possibile apprenderle?

Umberto Galimberti: Quando io dico arte, dico natura, la natura di una persona. Non tutte le nature sono terapeutiche. Alcune nature sono terapeutiche e questo, in linea generale, a prescindere che uno faccia o non faccia il terapeuta. C’è chi ha una vocazione accudente e chi invece proprio non c’è l’ha. Solo quelli che hanno una pre-configurazione accudente possono fare i terapeuti.
All’interno di questa premessa generale, certamente il terapeuta deve avere una relazione con la propria follia. Cosa intendiamo per follia? Per follia intendiamo quella dimensione non razionale che ci abita e che ci mette in contatto con tutto il mondo pre-razionale, che poi è tutto il mondo. Infatti, per fare un esempio, quel vaso di fiori per te significa una cosa e per me ne significa un’altra; quando comunichiamo razionalmente i loro significati privati vengono eliminati e io posso dirti “dammi quel mazzo di fiori”, prescindendo dal significato che questo mazzo di fiori ha per ciascuno di noi.
La follia la riconosciamo nel soliloquio dell’anima. Quando uno parla con se stesso, dice cose e fa associazioni che sicuramente non direbbe in pubblico, quindi è in contatto con la propria follia. Assumo per “follia” tutto ciò che non è rigorosamente comunicabile in maniera univoca, come prevede la ragione. Nel caso patologico, se ho associato quella porta alla porta dell’inferno, è chiaro che ho una titubanza ad entrare. Tutte le cose sono affiancate da queste associazioni private e queste associazioni private sono la follia. Quando Leopardi dice “dimmi che fai tu luna in ciel.”, è un’affermazione folle dal punto di vista razionale, perché si fanno interrogazioni a qualcosa che non risponde.
La follia, dicevamo, è nel soliloquio dell’anima. Nel rapporto duale gli innamorati dicono cose che sono al limite del delirio, come: “Senza di te, mi casca il mondo”. Questo non è vero dal punto di vista razionale. La razionalità, che garantisce l’univocità del linguaggio (per cui, se ti dico “televisione” tu non pensi a un totem), garantisce la prevedibilità dei comportamenti. Se io prendo quel mazzo di fiori tu non temi che te lo butti in testa, ma pensi che lo voglia donare. Questa è la ragione. Ma le cose sono disponibili con una pluralità infinita di significati, che soggiacciono nel momento razionale. Questa probabilità di significati è la follia. Tutto ciò che noi riusciamo a creare lo creiamo attingendo alla follia, perché la ragione è solo un sistema di regole da cui non nasce niente.

Il contatto con la follia deve però avvenire attraverso regole molto rigorose, perché la follia ti può trascinare in scenari da cui potresti non riprenderti più. Senza contatto con la follia, tu non puoi entrare in relazione con l’altro in termini terapeutici; d’altra parte, con un eccessivo contatto con la tua follia fai il matto. Per cui la creatività, che nasce solo dalla follia, vuole regole ferree: i creativi hanno delle discipline terribili, senza le quali sarebbero dei semplici spontaneisti.

Margherita Spagnuolo Lobb: È così che si apprende l’arte della psicoterapia?

Umberto Galimberti: Sì, attraverso il contatto con la follia. Queste cose le dice già Platone nel Simposio.

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIII, 2010 /1, Psicoterapia della Gestalt e fenomenologia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 11

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