La vita e il dolore nell’arte dello psicoterapeuta.

Intervista a Umberto Galimberti
-Margherita Spagnuolo Lobb.

Attraverso gli stimoli, di ispirazione gestaltica, di Margherita Spagnuolo Lobb e le risposte, filosoficamente vicine all’approccio junghiano, di Umberto Galimberti, questa intervista affronta temi importanti della clinica contemporanea. Dal rapporto tra il ruolo e il vissuto dello psicoterapeuta, il dialogo si intreccia con riflessioni sulla società post-moderna e sulle problematiche che vengono presentate allo psicoterapeuta nel tempo della “società cementata” (dipendenze, internet, Facebook, crisi economica). Lo psicoterapeuta, come un artista, deve imparare a conoscere sia le proprie possibilità che gli strumenti di lavoro, e deve avere un tipo particolare di fede. È di fondamentale importanza che sia consapevole della propria follìa, avendola attraversata, per riconoscere quella dell’altro, che sia consapevole dei propri dolori per vedere quelli dell’altro, che possa sentire il proprio corpo per sostenere la sensibilità dell’altro. Ed è altrettanto importante che lo psicoterapeuta si “protegga” dalla contaminazione che un’esposizione eccessiva al dolore può provocare.

(…)

Margherita Spagnuolo Lobb: Una cosa volevo chiederti sull’estetica e sul corpo: in psicoterapia della Gestalt pensiamo che stando con i sensi, cioè con l’esperienza piena dei sensi, si pervenga (si tratta di una fiducia nell’autoregolazione) ad un adattamento creativo, cioè a fare la cosa migliore (per sé e per l’altro) in quella data situazione. Cosa pensi della fiducia nell’adattamento creativo, e del legame che questo concetto ha con l’estetica?

Umberto Galimberti: Intendi fiducia nell’adattamento creativo nella relazione?

Margherita Spagnuolo Lobb: Si, stare con i sensi significa sentire me stesso ma anche intuire l’altro, stare con l’altro. In psicoterapia della Gestalt si parla di co-costruire il confine di contatto appunto.

Umberto Galimberti: Quando parlavamo di mancanza di risonanza emotiva, facevamo riferimento a questo. Le neuroscienze direbbero, come ho anticipato, che oggi mancano i neuroni specchio, per cui non riusciamo empaticamente a capire che cos’è l’altro. Poi trasliamo dall’estetica come sensorialità all’estetica come bellezza, che è un passaggio naturale. Le stesse ragazze non hanno una percezione del proprio corpo perché decidono la loro bellezza in uno stato di immobilità, ossia guardandosi allo specchio. Tenendo conto che allo specchio sono ferme, non sono nel mondo, vedono il particolare e non vedono la totalità. Non si vedono, credono che la bellezza sia quella costruzione artificiale di cui tutte le pratiche pubblicitarie le hanno persuase.

Margherita Spagnuolo Lobb: Forse potremmo collegare questa tendenza all’oggettivazione del corpo (o alla sua desensibilizzazione) con quanto tu scrivi sulla vita e sul dolore. Tu citi la cultura greca, e il senso del tempo concluso della vita, vissuta alla ricerca dell’armonia tra vita e dolore. L’integrazione tra vita e dolore avveniva nell’arco della vita terrena, e questo contribuiva ad un senso di integrità ricercata nel qui e ora, più che posposta in una vita ultraterrena, come voluto invece dalla cultura giudaico cristiana. Noi terapeuti dobbiamo necessariamente fare i conti con la vita e il dolore, e con la possibilità di integrarli, sia per i pazienti che per noi stessi. Volevo farti un paio di domande su questo: la prima riguarda il vissuto del terapeuta. Pensi che un terapeuta possa sentirsi se stesso nella seduta?

Umberto Galimberti: Essere se stesso è un luogo d’identità solido, uno zoccolo duro. Quando si incontra una persona, i processi di fiducia nascono se lei continua ad essere quella persona. Se una volta la vedo seria e una volta la vedo annoiata, non posso sviluppare fiducia. Poi, all’interno della relazione, il primo sforzo del terapeuta dovrebbe essere quello di entrare nella visione del mondo dell’altro, cambiando anche radicalmente il linguaggio. Faccio un esempio. Io ho fatto terapia ad una suora, nella prima seduta le ho detto: “Guardi, qui nel nostro lavoro mancano due fattori molto importanti, la pratica sessuale, alla quale lei non ha accesso per sua scelta, e il linguaggio (sto parlando della psicoanalisi), che è fortemente adornato di metafore sessuali. Allora facciamo un esperimento: io introduco le metafore sessuali e le metafore religiose e parliamo religiosamente”. E si può parlare religiosamente. Si può fare. Lei si è trovata a casa.

Comprendere vuol dire captare empaticamente il nucleo; nel caso patologico, il nucleo delirante di una persona. Quando tu hai catturato questo nucleo, tutte le sue manifestazioni ritornano come un teorema e quindi l’hai compreso. Ma anche nell’ambito non psicopatologico, io comprendo se capisco il nucleo da cui si diparte la visione del mondo dell’altro. Noi non abitiamo il mondo, ma abitiamo solo e unicamente la visione che abbiamo del mondo. Il compito terapeutico è per me vedere se tu stai soffrendo per le cose che ti accadono nel mondo o per l’interpretazione che dai delle cose che ti accadono nel mondo. Stai soffrendo per il mondo o perché la tua visione del mondo te lo fa vedere in quella modalità? Dunque in terapia allarghiamo la visione del mondo. (…)

Tratto da Quaderni di Gestalt, vol. XXIII, 2010-1, Psicoterapia della Gestalt e fenomenologia
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli

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